Genovese, nato pochi mesi dopo l’attentato di Sarajevo, con l’Europa che precipitava nel primo conflitto mondiale, primo maschio dopo tre femmine, orfano di padre a dieci anni, Pietro Germi non avrebbe potuto di certo venir fuori con un carattere docile. Inizialmente intenzionato ad intraprendere la carriera marinara, interruppe improvvisamente gli studi all’Istituto nautico, nonostante il buon rendimento. In quegli anni, approfondì da autodidatta la conoscenza dell’inglese, del francese e del russo, fece le sue prime esperienze teatrali, oltre a divorare opere letterarie e cinematografiche, in particolare di René Clair e John Ford. Dopo un periodo a Milano per tentare la carriera letteraria, inviò un soggetto per un film al Guf per essere ammesso ai corsi di regia del Centro Sperimentale. Rifiutato per la regia, in quanto privo del titolo di studio, venne ammesso come attore, il che gli avrebbe consentito comunque di seguire anche i corsi di regia. Stabilitosi a Roma, si mantenne agli studi con comparsate nei film e altri occasionali lavori. Fondamentale fu l’incontro con Alessandro Blasetti, punta di diamante della cinematografia italiana dell’epoca, con il quale, oltre a qualche piccola parte d’attore, lavorò come assistente alla regia.
Durante la convalescenza da una pleurite, scrisse il suo primo soggetto per un lungometraggio, Il testimone, destando l’interesse di una casa di produzione, la Orbis Film, che decise di produrlo a patto che l’esordiente regista accettasse la supervisione del maestro Blasetti; come assistente alla regia, Germi scelse un amico appena più giovane di lui, Mario Monicelli, che si era fatto notare per film autoprodotti, ottenendo già nel 1935 il primo premio a Venezia nella sezione Passo ridotto. Uscito nelle sale nel 1946, il film non passò inosservato e anche la critica più severa, pur rimarcandone l’acerbità, colse nell’esordiente regista una vena originale nel rileggere la struttura del giallo con cura psicologica e capacità di inserire la narrazione in un contesto sociale plausibilmente realista, pregi che valsero al film il Nastro d’argento per il soggetto, premio che debuttava proprio quell’anno. Nel successivo Gioventù perduta del 1948 approfondì, sempre utilizzando la struttura del noir, l’indagine psico-sociologica e la contestualizzazione storico-sociale. Sotto l’aspetto squisitamente tecnico, già in questi primi due lavori era evidente la perizia nella ricerca luministica e fotografica.
Dopo le sperimentazioni noir, Germi si rivolse al Western, proponendone un riadattamento in ambiente siciliano, con In nome della legge (1949), storia di un giovane magistrato che si trova a scontrarsi con la realtà mafiosa di un paesino della Sicilia, Nastro d’argento speciale e buon successo di pubblico. Il successivo Il cammino della speranza (1950), Orso d’argento a Berlino, è la sofferta epopea di una piccola comunità di solfatari costretta, per mancanza di lavoro, all’esodo dalla Sicilia verso la Francia. In questi due film, come nel successivo poliziesco La città si difende, miglior film italiano al Festival di Venezia, Germi si avvalse della collaborazione per la sceneggiatura di Federico Fellini. Seguirono alcuni lavori più deboli e un incipiente crisi creativa che si risolse solo nel 1956, con l’uscita di Il ferroviere, diario dell’alienazione umana e sociale di un macchinista alle prese con problematiche lavorative e familiari, in cui Pietro Germi rivestì i panni del protagonista, mostrando un’interpretazione di carattere e spessore, siappure eccedente in spontaneismo. Il film fu un grande successo di pubblico, mentre la critica si divise tra le lodi per l’equilibrio raggiunto tra dramma popolare, spaccato sociale e indagine psicologica e i giudizi negativi per l’eccessivo ricorso al pathos e al populismo. La sinistra ufficiale rimproverò al regista il ritratto poco epico dei lavoratori, arrivando ad etichettarlo in modo sprezzante come socialdemocratico. Queste critiche si inasprirono per L’uomo di paglia (1958), in cui la retorica operaia venne dissolta dalla massificazione borghese del boom economico e dall’adulterio del protagonista, ancora interpretato da Germi, un operaio specializzato che, incapace di scegliere tra famiglia ed amante, porta quest’ultima al suicidio.
Nel 1959 Germi compì la sua operazione cinematografica più ardita: da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana trasse il film Un maledetto imbroglio, costruendo attorno al personaggio del commissario Ingravallo, da egli stesso interpretato, un giallo esistenziale, ripulendo il capolavoro gaddiano della sua caratteristica dominante, il meticciato linguistico, per far emergere più chiaramente l’intreccio, ma mantenendo il gusto per il grottesco e il pessimismo di fondo. Il film ottenne il Nastro d’argento per la migliore sceneggiatura. Due anni dopo fu la volta del capolavoro assoluto della sua filmografia, Divorzio all’italiana, commedia amara e grottesca sulle vicissitudini di un decadente nobile siciliano, il barone Cefalù interpretato da Mastroianni, il quale, invaghitosi di una giovanissima cugina (Stefania Sandrelli), spinge la moglie al tradimento per potersene liberare con un delitto d’onore. Il film ottenne l’Oscar per soggetto e sceneggiatura, oltre a vari Nastri d’argento ed altri premi e segnalazioni in importanti manifestazioni internazionali. Ancora l’ambientazione siciliana e il pesante retaggio delle regole consuetudinarie in una società in veloce trasformazione furono alla base di Sedotta e abbandonata del 1964, meno equilibrato del precedente per un eccessivo ricorso al grottesco. Con il pluripremiato Signore e signori del 1966, Germi fotografò il conflitto tra vizi privati e pubbliche virtù nella provincia del nord-est in pieno boom economico. Nei suoi ultimi anni, il regista girò altre quattro commedie (L’immorale, Serafino, Le castagne sono buone, Alfredo, Alfredo), senza raggiungere un livello paragonabile ai capolavori precedenti. Aggredito dalla cirrosi epatica, Pietro Germi morì il 5 dicembre del 1974 dopo aver scritto il suo ultimo film, Amici miei, da egli stesso affidato alle mani dell’amico di una vita Mario Monicelli.