lettera di Pietro Ichino pubblicata su il Corriere della Sera il 22 dicembre 2011Caro Direttore, nel dibattito sulla riformadel mercato del lavoro che si è aperto dopo l'intervista del ministro Elsa Fornero al Corriere del 18 dicembre, si osserva una straordinaria divaricazione tra la sostanza politico-economica della questione, che viene per lo più sottaciuta, e gli argomenti sui quali ci si accapiglia. Il primo tema caldo sollevato a sproposito è stato quello del rischio che l'introduzione di una nuova disciplina del lavoro in un periodo di recessione economica scateni un'ondata di licenziamenti.
Il capo del governo Mario Montiè stato chiarissimo, fin dal discorso programmatico del 17 novembre, sul punto che la riforma non deve toccare i rapporti di lavoro già costituiti, bensì soltanto quelli destinati a costituirsi da qui in avanti. Nella congiuntura attuale, dunque, la riforma potrà influire soltanto sul flusso delle assunzioni, non certo su quello dei licenziamenti.Un altro tema caldo, anzi caldissimo, sollevato a sproposito per chiudere il discorso prima ancora che si apra, è quello dell'intangibilità dell'articolo 18 dello Statuto, come chiave di volta della protezione della libertà e della dignità dei lavoratori. Ora, la questione che il ministro del Lavoro ha posto nella sua intervista al Corriere è proprio quella del come voltar pagina rispetto a una situazione che vede le nuove generazioni per lo più escluse da quella protezione. E tutti i progetti di riforma oggi sul tavolo prevedono che per questo aspetto - cioè in particolare quello della tutela antidiscriminatoria - il campo di applicazione dell'articolo 18 venga esteso a tutta la vasta area di lavoro sostanzialmente dipendente che ne è attualmente esclusa.
Molto più serie sono le questioni sollevate da chi, come Cesare Damiano, nell'intervista al Corriere di ieri, entra nel merito del problema. Le obiezioni dell'ex-ministro del Lavoro alla prospettiva enunciata da Mario Monti di imitare in Italia il modello scandinavo sono essenzialmente tre: i Paesi scandinavi sono molto più piccoli del nostro; il loro mercato del lavoro è dotato di servizi molto più efficienti dei nostri; essi infine dispongono di molte più risorse economiche per il sostegno del reddito dei lavoratori che perdono il posto. A ben vedere, è sostanzialmente lo stesso discorso che su queste pagine ha proposto Mario Fezzi, avvocato della Cgil, il 30 novembre scorso. Entrambi questi interventi, molto ragionevolmente, lasciano intendere il vero nodo politico: affrontiamo e risolviamo prima la questione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, e la questione di come estenderla davvero a tutti i lavoratori; risolta quella, un accordo sulle regole della flessibilità del lavoro non faticheremo a trovarlo.
Esaminiamo dunque una per una le questioni di merito sollevate. Sulle dimensioni geopolitiche, in realtà, il problema non dovrebbe porsi. La Svezia ha la stessa popolazione - e lo stesso identico reddito pro capite - della Lombardia; all'incirca lo stesso può dirsi della Danimarca in riferimento a Regioni come il Piemonte, il Veneto o l'Emilia Romagna; le altre per la maggior parte sono più piccole. E dal 2001 le nostre Regioni hanno piena competenza legislativa e amministrativa in materia di servizi al mercato del lavoro. Certo, i nostri servizi pubblici in questo campo sono gravemente inefficienti. Ma non è che in Italia manchi il know-how specifico: abbiamo anche noi le agenzie che sanno offrire servizi eccellenti di outplacement (assistenza intensiva per la ricollocazione) e di riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Il problema è che sono agenzie private, le quali chiedono di essere pagate a prezzi di mercato. Nulla impedisce, però, di pensare che le Regioni incomincino a spendere meglio i fiumi di denaro che oggi sperperano in questo campo, ivi compresi i cospicui contributi del Fondo sociale europeo oggi poco e malissimo utilizzati, per rimborsare il costo standard di mercato di questi servizi alle imprese che se ne avvalgano per ricollocare i propri lavoratori.
Resta il problema del sostegno del reddito ai lavoratori stessi. Qui non sarebbe difficile riconvertire una parte dell'enorme spesa oggi sostenuta dall'Inps per la cassa integrazione «a zero ore» attivata a fondo perduto per congelare le crisi occupazionali aziendali, destinandola invece a estendere a tutti i settori il trattamento di disoccupazione speciale oggi riservato ai lavoratori dell'industria: 80 per cento per il primo anno successivo alla perdita del posto. Per arrivare ai livelli danesi di entità e durata del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato occorre aggiungere un trattamento complementare; questo oggi può essere chiesto alle imprese stesse, in cambio di una flessibilità di livello danese. In questo modo non è affatto impensabile, per tutti i nuovi rapporti di lavoro, coniugare una flessibilità delle nostre strutture produttive molto maggiore con una sicurezza economica e professionale dei lavoratori di livello scandinavo. E a questo punto i veti politico-sindacali sono destinati a cadere, o quanto meno a stemperarsi.