“Di chi sono quei pantaloni lì?”. “Della Titti”.
“Di chi è quel casco?”. “Di Zobbo”.
“Di chi è quella borsa”. “Della Ceci”.
Il mondo globale dei ragazzi si muove così.
Tutte le cose comprate o prese in prestito dai genitori, che siano indumenti, mezzi di locomozione, aggeggi domestici o cose importanti, sono a casa di un altro.
Un mutuo scambio da mercatino delle pulci dove tutto sembra in prova, ma in realtà è stato dimenticato.
E allora chi ha figli adolescenti ha già visto, per esempio, arrivare in casa sedici caschi da moto diversi; ha già sentito un “papà mi presti il casco che il mio è da Pilly, stasera te lo rimetto nel bauletto” per poi non rivedere mai più il proprio casco e smadonnare la mattina dopo quando deve caricare un amico, apre il bauletto e si accorge che è desolatamente vuoto.
Il casco ce l’ha Pilly.
O forse, in quel momento, ce l’ha già Greggy o la Toda.
Le cose vengono acquistate e a volte mai indossate, finiscono subito addosso ad un altro e non vengono nemmeno più chieste indietro.
Fluttuano indumenti sconosciuti in armadi di mezza Bologna in un promiscuo bazar a zero lire.
Si vedono in giro ragazze vestite con le scarpe della Floppy, i bermuda di Lanzaro, la t-shirt del nonno di Buggo, il motorino della Fro, la borsa della Fri e la collana della Fra.
Viene in mente una grande costumeria teatrale per un rutilante spettacolo in cui tutti si travestono da qualcuno e il giorno dopo da qualcun’altro, che dopo non distingui più i personaggi e figuriamoci il testo.
La faccenda è molto seria.
Soprattutto perchè ad un certo punto della vita, sfortunatamente, gli indumenti dei genitori vanno bene anche addosso ai figli.
Disastro.
Ti ricordi di avere una felpa e la cerchi una mattina intera, mandi tre cancheri al ragazzo delle pulizie, accusi tutti, marito, figli, nipoti, amici dei figli, una specie di anatema globale.
Poi ti accorgi che era da lavare.
O, viceversa, la ritrovi dopo tre giorni in via Rizzoli addosso a una con la cresta e allora urili: “la mia felpa! fermo!” E lei ti guarda come fossi un pezzente e ti dice: “stai alla larga, maniaca!”
Una volta quando si prestava una cosa si puntualizzava: “oh, guarda che si chiama Pietro, eh?”
Adesso le cose non si chiamano.
O, quando va bene, si chiamano Fede o Benas, se erano di una certa Federica o di un certo Benassi.
Mia figlia, per esempio, ha da due mesi in casa la borsa per andare al mare (che poi non ci sono andate) di una sua amica, ma con dentro tutto, ciabattine, telo, costume di ricambio, crema solare, ciappettini per i capelli.
Praticamente un completo.
Che viene riciclato e smontato per cui la crema solare va a finire a casa di una zia di Ferrara che era venuta nel weekend e si era messa a prendere il sole in giardino, le ciabattine sono ai piedi della nipote della filippina della vicina di casa che le ha usate per andare a portare l’indifferenziato e non se le più tolte, l’amica di mia figlia, intanto, sta usando un completo-mare di qualcun’altra.
Tutto regolare.
Una signora che conosco in casa ha degli scaffali come nei negozi, con i nomi degli amici dei figli.
Quando arriva Andruz va a dare un’occhiata lì dove c’è il suo nome e qualcosa trova.
Mal che vada pesca nello scaffale di Bubi.
Di questo passo ci si troverà a prestare la macchina, la casa, forse, la moglie.
“Chi è quella?”, “la moglie di Foffi, lui ha la mia, poi forse ce la ridiamo”
Io, intanto, ho un armadio che non riconosco più.
Roba non mia.
Tra poco esco con le scarpe di Lucy che mi stanno larghissime, con i pantaloni di Jobba che sono strettissimi e con la t-shirt heavy metal di Poppy.
Ma guardandomi bene allo specchio, ma sì va là, non sto neanche male.