Nota di commento a “Pigmenti”, Edizioni L’arca Felice, Salerno 2010, pp.16
Antonietta Gnerre in questa nuova raccolta rilancia l’amo nelle profondità inoltranti dell’essere dove l’inòpia di vìveri di una dinamica conforme alla ragione s’inquadra, con religioso credo, nella curiosità inquisitiva-insinuante di capire e afferrare il mondo. La costruzione distillata dei versi insiste su un costellato terrapieno verbale estatico e simbolico, eletto, concinno e resinoso che compone la dicotomìa tra tradizione e modernità nell’ampio respiro onìrico di una poesia ravvisatamene comunicativa pur intarsiata di mistero a raggi: “ I tuoi sogni sono come la luce/ si lasciano ammirare dalle tende./ Eppure, sento, che non hanno riparo/ queste mie pene. Nascono dalla/ tua materia, per restare sul rigo/ di un grande motore umano./ La mia carne.” L’organicità strutturale del dire depone a tratti l’intemperante rabesco metaforico dalle marcate insegne allusive-elusive, per procedere all’integrazione conciliatoria della materia nel corpo vivo della parola. In “Pigmenti” le cose e i luoghi, intercettando suoni, impressioni e sentimenti, si fanno nucleo di visìbile battente che inside nell’Assoluto indefinito carpendone a volte i segreti racchiusi. L’identificazione uomo-terra è compiuta: “Ricade su di me la scintilla della tua luce/ sull’erba sui virgulti a piccole vele/ e sulla tua pelle/ scavata da un punteruolo/ che modifica le foglie/ mentre nessuna misura interdittiva cala sulla volontà dell’autrice di darsi e denudarsi, “fragǐlis flōs” tra le colonie luminose dell’esistere. Nel leggere le lìriche assumiamo che non è la poesia irpina ad inserire la corrente della nostra meraviglia, ma è la grande poesia, quella che con radici primarie di bellezza, ci riscatta dagli insulti rapaci del buio, recando in pacchi dono il cuore di palma almeno, di un’uscita.
Monia Gaita