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Piketty: il divario crescente fra rendite e redditi da lavoro – II parte

Creato il 06 ottobre 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Nicolò Bellanca

 Può la politica ridurre gli squilibri nella distribuzione della ricchezza?

Il capitalismo patrimoniale secondo Thomas Piketty (fonte: The Guardian)

Il capitalismo patrimoniale secondo Thomas Piketty (fonte: The Guardian)

 Come contrastare politicamente questa dinamica strutturale non egualitaria? Mentre l’imposta progressiva sul reddito è stata la grande innovazione fiscale del XX secolo, secondo Piketty il XXI secolo dovrebbe adottare l’imposta progressiva planetaria, annuale e permanente, sul capitale. Un esempio del tipo di piano tariffario che Piketty ha in mente è un’imposta dell’1% sulle fortune tra 1 e 5 milioni di euro e del 2% per i patrimoni al di sopra di 5.000.000 €. 

Una tale imposta applicata nell’Unione europea genererebbe entrate pari a circa il 2% del PIL. «Lo scopo primario dell’imposta sul capitale non sarebbe di finanziare lo stato sociale, bensì di regolare il capitalismo» (p.518): diminuendo il divario tra il tasso di rendimento del capitale e il tasso di crescita economica, essa indebolirebbe lo stesso meccanismo creatore del divario. L’imposta sul reddito del secolo scorso ha dimostrato che per crescere non occorre né l’elevatissima concentrazione patrimoniale del XIX secolo, né la penalizzazione della classe media. Analogamente, l’imposta mondiale sul capitale dovrebbe consentire all’interesse generale di riprendere il controllo degli interessi privati, senza ingolfare le forze della concorrenza e dell’innovazione. (Va rimarcato che l’autore argomenta in modo convincente la praticabilità di un’accurata tassazione di tutte le forme di capitale, incluse quelle finanziarie, spesso considerate capaci di sottrarsi ad ogni controllo). Si tratta di un obiettivo politico nell’immediato poco realistico, ma, secondo l’autore, adeguato all’altezza del problema. E’ un obiettivo che, assieme ad altre proposte su cui non mi soffermo, giustifica la valutazione di Timothy Shenk (The Nation, 5/05/2014): «Un libro come Capital in the Twenty-First Century è un segno che una tradizione socialista perduta, quella delle visioni postcapitalistiche, rimasta latitante dagli anni 1970, potrebbe essere pronta per un ritorno; o, meglio ancora, che potremmo mettere da parte le vecchie tradizioni e tracciare il nostro percorso».

Chiudo con qualche annotazione critica. Piketty usa “capitale” come sinonimo di wealth, cioè patrimonio o ricchezza, rigettando la distinzione, centrale nel pensiero economico “classico” e marxista, tra ricchezza impiegata in attività “improduttive” o “produttive”, dove soltanto a quest’ultima spetta il titolo di “capitale”. Se è capitale qualsiasi asset che permette al suo possessore di ottenere un rendimento, è indifferente come esso è accumulato e sembra sensato, come fa Piketty, assumere «che l’economia aumenti il suo stock di capitale di anno in anno di un importo che è una frazione costante del reddito (netto) nazionale» (Krusell e Smith, all’indirizzo http://aida.wss.yale.edu/smith/piketty1.pdf; una versione divulgativa è http://www.voxeu.org/article/piketty-s-second-law-capitalism-vs-standard-macro-theory). Se, invece, la ricchezza può essere tanto investita produttivamente quanto destinata a usi improduttivi, e se il saggio di profitto sugli investimenti dipende (anche) dal saggio di crescita dell’economia, allora è plausibile che, al ridursi del saggio di crescita, diminuisca il saggio di accumulazione, indebolendo il meccanismo r > g che Piketty considera la “contraddizione fondamentale del capitalismo”.

Circa la proposta di un’imposta progressiva sul capitale, è ancora utile evocare i dibattiti “classici” dell’economia politica; nelle parole di Franco Debenedetti (Il Sole-24 ore, 20/05/2014): «Se si ritiene che il return on asset sia eccessivo, invece che tassare gli asset si può ridurre il return, aumentando i salari minimi, alzando le tasse sui profitti aziendali, favorendo la concorrenza. Se si vuol trovare la ragione dell’aumento della diseguaglianza nei paesi sviluppati, più che al rapporto tra capitale e reddito, conviene guardare all’andamento dei salari, a come su di essi abbiano influito innovazione tecnologica e globalizzazione, due fatti estranei al determinismo di Piketty». Quest’osservazione riafferma l’esigenza di distinguere tra capitale come ricchezza alimentata dal nesso produttivo con il lavoro salariato, e la restante ricchezza improduttiva. Ma, possiamo aggiungere, se si pone al centro il rapporto capitalistico di produzione, appare riduttiva l’idea che si possano affrontare le disuguaglianze, soprattutto quelle estreme, soltanto attraverso la tassazione; occorrono piuttosto strategie di pre-distribution, quali l’apertura alla concorrenza delle posizioni privilegiate e l’introduzione di forme di governance che attenuino il potere dei super-ricchi all’interno delle imprese e dello Stato.

6 ottobre 2014


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