Magazine Racconti
Paul
Ho perso la verginità contro un muro. Se Kerouac fosse vissuto abbastanza da incontrarmi, probabilmente avrebbe inserito una scena come questa in uno dei suoi romanzi.
Io avevo sedici anni (non ancora compiuti), lei ventiquattro. Ero più magrolino di adesso, ma nonostante ciò era facile scambiarmi per un ragazzo più grande. Mentii sull'età per entrare in una confraternita parauniversitaria, alcuni nostalgici del maggio francese che si riunivano in un appartamento poco fuori città. Per essere ammesso dovetti superare un curioso rito di iniziazione: immergermi nudo in una vasca d'acqua ghiacciata, imparare l'intero Urlo di Ginsberg a memoria e declamare a voce alta una poesia a mia scelta dalla cima della Tour Eiffel. Non specificarono che intendevano una poesia di quel libro, anche se dal loro tono era sottinteso: li provocai, cavandomela con i due soli versi di Mattinadi Giuseppe Ungaretti. In italiano, per l'occasione. E così da sotto la torre tutti seppero che m'illuminavo d'immenso.
Ammirarono la mia audacia al punto da non cacciarmi neppure quando dissi loro la mia vera età. Restai nel gruppo fino all'università, e anche oltre. Con alcuni mi vedo ancora di tanto in tanto, per un aperitivo o un cinema in cui ricordiamo i tempi andati.
Al funerale di Francoise c'erano tutti. Tutti. Quelli ancora vivi, perlomeno.
In teoria ero io a stare sopra, ma fece tutto lei. Mi spogliò, si spogliò, mi guidò nel suo corpo, mi attirò a sé tenendomi stretto con le mani, diresse ogni singolo movimento. Non dovetti fare nulla, se non vivere ogni istante. Tre minuti, o forse cinque, in cui la vita mi passò davanti come in un cortometraggio, e fu uno dei pochissimi momenti della mia esistenza in cui avvertii che tutto ha un senso e tutto ha una logica. Dopo lei mi sorrise, e mi disse qualcosa che suonava come un complimento. Chiunque altro al mio posto avrebbe messo a tacere la mente e trasferito i pensieri dal ventre in giù, esaurendo in pochi secondi ogni possibilità di ragionamento. Io no. Senza saperlo, avevo appreso che in nessuna circostanza la mente deve essere lasciata a se stessa.
Qualche anno dopo smise di venire agli incontri. Seppi che era rimasta incinta di un muratore di Neuilly, di origini ghanesi, e i suoi genitori l'avevano malgrado tutto costretta a sposarlo. Assurda società, in cui non si smette mai di essere figli e di dipendere dalla volontà altrui. La bambina era nata idrocefala, e quando lei stessa me lo raccontò – la incontrai per caso in una libreria di Marsiglia – gli occhi le luccicavano come fosse la notizia più bella che potesse darmi. Non importava che suo marito fosse tornato al suo Paese, che lui e la sua famiglia non avessero accettato una simile responsabilità, né che i suoi genitori avrebbero accolto una nipotina di colore, anche se handicappata, ma che la invitarono a lasciare il quartiere perché i vicini non sapessero del divorzio, non importava che lavorare e badare a lei fosse così difficile, non importava che ogni uomo che incontrava facesse un passo indietro appena sapeva della bambina.
Una seconda volta, lei mi insegnò l'amore per la vita.