I Pink Floyd sono sempre stati il meno appariscente fra i gruppi progressive.
Già nel 1966, quando erano in procinto di abbandonare il R&B in favore del nuovo suono psichedelico, i quattro timidi ragazzi amavano nascondersi dietro le frangette e le luci caleidoscopiche del palco. Nel 1971, uscito da tempo di scena Syd Barrett, il compositore più prolifico del gruppo, quest’attitudine elusiva non era ancora venuta meno. Stavolta però erano montagne di modernissime apparecchiature a celarli alle platee. Infine, nell’autunno di quell’anno, il progetto di un vero e proprio fil musicale li indusse a rinunciare del tutto alla presenza del pubblico.
L’idea era quella di riprendere un concerto, ma senza la situazione di contorno tipica di un teatro o di un college. Così, su suggerimento del regista Adrian Maben, i quattro si trasferirono in un anfiteatro fra le rovine di Pompei, un’ambientazione perfetta per i loro lunghi brani, quasi del tutto strumentali . Mentre vapori e acque calde sgorgavano dal Vesuvio, i paesaggi sonori del gruppo si dipanavano con l’epica maestosità di piccole sinfonie post psichedeliche come “ Echoes” e “Sacerful of Secrets”.
“Il fatto che fosse girato in esterni e con immagini un po’ sgranate, compensò ampiamente l’assenza di pubblico. Era un posto straordinario, battuto dal vento, ma non sentimmo su di noi il peso della storia. Quando arrivammo con le apparecchiature non ci vennero in mente cose del tipo :” Ecco, mille anni dopo, invece dei leoni e dei cristiani , ci sono i Pink Floyd”. Ci sembrò più che altro un posto interessante. Ci rendemmo davvero conto dove eravamo quando, lasciato l’anfiteatro, visitammo le rovine intorno. La cosa più importante è che si tratta di una performance sorprendentemente buona, anche riascoltata dopo tanti anni. Era un periodo molto produttivo, forse il più produttivo nella storia del gruppo”.
Nick Mason, 2005.