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Nell'autunno del 1975, diciassettenne, entravo in un negozio di dischi (Club 33) con 4500 lire in tasca; il commesso era impegnatissimo ad estrarre da uno scatolone copie di un disco coperto da una plastica nera come quella dei sacchetti dell'immondizia, per distribuirli ad un pubblico praticamente in fila per l'acquisto. Assieme al disco ti metteva in mano anche un adesivo che nei programmi avrebbe dovuto incollare sulla plastica nera, ma non ne aveva il tempo. Arrivato a casa, aperta la plastica con la massima cura per non sciuparla, era tutt'uno sfilare il vinile, metterlo sul piatto e appoggiare la puntina sul primo solco. Giungeva da lontano un suono fluido d'organo che andava via via caricandosi fino al liberatorio assolo della Fender. Un incipit ascoltato un migliaio di volte per quello che sarebbe stato il disco più gettonato di quel finale d'anno. Sul brano Welcome To The Machine il disco saltava impercettibilmente perché era troppo lungo per poter essere stampato correttamente; essendo il brano più scadente del disco era un difetto sopportabile. Qualche anno prima forse neanche sarebbe stato possibile trovare un disco dei Pink Floyd in quel negozio mentre quel giorno non avevano copie a sufficienza per i clienti, a causa del successo planetario del precedente The Dark Side Of The Moon e dell'uscita (nei cinema d'essai) di Pink Floyd At Pompei.
Dissolvenza in nero. Nel novembre del 2011 apro la piccola confezione di cartone singolarmente bella per essere di un compact disc, salgo in auto, infilo il dischetto nell'autoradio dirigendomi verso la campagna per ascoltarlo, come faccio quando escono dischi nuovi che per me hanno un significato speciale. Di nuovo i diffusori trasmettono l'intro teso d'organo, poi la chitarra fluida di Gilmour; quando arriva però il breve assolo di Wright accade qualche cosa di imprevisto: le note, per qualche istante, non seguono la conosciuta sequenza un po' sintetica ma tremolano nel raga indiana ben noto ai fan di Ummagumma; il giro classico del grande Richard Wright cosmico che abbiamo amato. Si tratta ancora di Shine On You Crazy Diamond, ma non nella versione in studio del '75, bensì in quella mitica registrata in concerto nel 1974 a Wembley e resa nota dai bootleg. E come nei bootleg, due dei brani si intitolano Raving And Drooling e You've Got To Be Crazy. Come Shine On You erano brani inediti quando i Pink Floyd li suonarono in concerto; all'epoca non era ancora tutto music biz per la band, e si potevano abitualmente permettere di suonare brani inediti e improvvisazioni; non erano ancora i PF superstar inchiodati musicalmente dalla sincronia con gli effetti visivi ed i filmati proiettati sul palco. Sia Ravin' che Crazy erano brani molto belli, più di quelli che sarebbero poi apparsi effettivamente su Wish You Were Here, il disco del '75. Qualche hanno dopo Waters, a cui stavano cominciando a fondere le valvole, avrebbe riscritto i testi dei due brani ed inventato un concept intitolato Animals, basato sulla metafora sociale di Cani, Pecore e Maiali (probabilmente ispirandosi al conterraneo George Orwell). Sfortuna volle che i quattro disponessero in quella occasione di uno studio di proprietà, e che il piacere di suonare assieme cominciasse a sfumar loro, così da registrare gran parte di quel disco in sovraincisioni separate e con un eccesso di suono lussuoso e patinato. Oggi alle versioni originali viene resa giustizia dal secondo CD della versione "experience" della lussuosa ristampa di Wish You Were Here. Siccome il resto dello show era costituito da The Dark Side Of The Moon, si trova oggi sul secondo CD dell'analoga ristampa, mentre questo CD è completato dall'incipit di Shine così come era stato concepito in un abortito progetto sperimentale intitolato Household Objects in cui i Floyd cercavano di creare suoni son oggetti quotidiani come bicchieri ed elastici. I suoni realizzati finirono fra gli effetti di Wish You Were Here, in particolare in questo incipit i bicchieri. Poi una versione di Have A Cigar cantata da Gilmour (nella versione originale la voce era prestata dall'amico Roy Harper, ma questa versione è più bella perché decisamente più floydiana), ed infine l'acustica Wish You Were Here (forse il brano più coverizzato della band) con un inedito violino di Stéphane Grappelli.
Non so che effetto possa fare la musica dei Pink Floyd "tardo cosmici" alle orecchie di oggi, di chi non li abbia mai uditi. Certo è che il disco rimane molto bello dopo tanto tempo, e la parte migliore è proprio il rabbocco live. Non è un caso che Shine On You sia stato di recente suonato anche da Gov't Mule e da Grateful Dead (ok, sempre di Warren Haynes si tratta). Di certo è che negli anni sessanta e settanta (e ottanta) si registravano dischi più longevi che di questi tempi.
I bootleg lo testimoniano: le cose più belle i Pink Floyd dopo Barrett le hanno realizzate dal vivo in concerto. Sarebbe molto bello che saltassero fuori i nastri degli show degli anni di Ummagumma, Atom Heart Mother e Meddle. Per ora non sono ufficialmente previsti, ma a questo punto la speranza è lecita.
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