Intanto non piove neanche oggi. Sembra strano, ma ad Alessandria è una cosa contro natura. Qui, nella Padagna depressa, quando comincia aprile, arrivano a braccetto i baracconi e la pioggia. Sono un po' un binomio inscindibile e nostrano, una coppia che, come quei vecchi coniugi che festeggiano le nozze di diamante, non riescono a stare lontani neppure per poco, perchè hanno costantemente bisogno l'uno dell'altra. Da tutte le parti le chiamano giostre o Luna park, se si fa ad essere fini, ma da noi li hanno sempre chiamati baracconi; un corpo unico un po' alieno che invade oggi la piazza d'armi, ma che quando ero piccolo io, si impadroniva per tutto il mese di Piazza Garibaldi, che era un po' la sala di rappresentanza della città con le sue omogenee quinte di palazzi ottocenteschi.
Come sugli altri ragazzini, i baracconi avevano su di me un'attrazione morbosa, forse iniziata come per tutti i bambini quando mi ci portò, la prima volta che mi ricordi, il mio papà per farmi salire su una giostra, che mi pareva grandissima, con tante buffe macchinine. Io volli a tutti costi la vespa, che rimase poi per sempre un desiderio inappagato, ma quando tutto iniziò a girare vorticosamente, ero talmente emozionato che mi dimenticai di suonare il clacson, come mi ero preposto, nonostante i grandi segni che mi faceva mio padre a cui avevo comunicato di stare ben attento ad ogni mio passaggio. Così il giro finì in fretta, troppo in fretta, ma se ne poteva fare solo uno, come era nei patti, così me ne tornai a casa con una lacrimuccia incipiente, mesto con il magone nel cuore e senza neanche la voglia di raccontare alla mia mamma la grande avventura. Poi, un po' più cresciuto, ci potevo andare da solo, appena finiti i compiti e mi piaceva passare un paio d'ore anche se ero quasi sempre da solo, riparandomi sotto le tettoie, perchè pioveva sempre come vi ho detto, a guardare le varie attrazioni, come venivano chiamate.
Mi piaceva guardare i bulletti che sparavano con le carabine dei tirassegni, rompendo i gessetti uno dopo l'altro o meglio quelli dei fuciletti a tappo con cui si vincevano sempre e solo dei grossi wafer rettangolari, o le gabbie che forzutissimi ragazzotti, tra l'ammirazione delle ragazze, facevano girare dondolandosi all'interno con la forza delle braccia, cosa che mi pareva assolutamente superiore alle mie forze, anche perché il mio rapporto peso/muscolatura era già leggermente sbilanciato. Guardavo ammirato da fuori la presentazione delle moto che facevano il giro della morte, miracolo della fisica o le macchine di una grande pista ad otto dove andavano solo i ragazzi più grandi. L'unica parte semiattiva me la prendevo sugli autoscontri dove facevo spesso il terzo trasportato non pagante, come da tradizione, di qualche mio amico che mi prendeva a bordo volentieri per aumentare il peso del mezzo e rendere così gli scontri con le macchine avversarie più devastanti. Mi aggiravo così quasi sempre solitario fino all'imbrunire, quando l'orologio della piazza segnava le sei e mezza, che mancando l'ora legale, segnava un po' il limite spartiacque prima dell'accensione delle luci colorate. Perchè mi ero ritagliato soltanto una posizione di guardone passivo, nonostante, nella maggior parte dei casi fossi dotato ogni volta di 30 lire, che credo corrispondessero al prezzo di una corsa, non so. In realtà me le baloccavo in tasca per tutto il pomeriggio come se fossi nel dubbio di cosa scegliere.
Poi verso la fine crollavo e (so che mi criticherete) mi fermavo invariabilmente davanti al banchetto dei Krapfen, di cui ho ben stampato in testa quell'odore netto di olio bruciato, ma con un delizioso fondo zuccherino che veniva spolverato sul tortello dorato mentre usciva unto e bollente dal pentolone nero. Non avevo mai la disponibilità per quello rotondo da 50 lire che gongolava enorme, ricco e desiderabile, ma ripiegavo deciso per quello da 30 fatto a losanga che che atteneva perfettamente al mio budget. Lo afferravo attraverso la carta gialla e già unta al primo contatto, bello, caldo e gonfio e ci affondavo un morso ingordo che ne spezzava la dorata superficie croccante a rivelare il paradiso del morbido interno dove abitavano delicati sentori di mela. Indimenticabili.
Chi se ne frega se non avevo sparato coi tappi o fatto due giri sull'autoscontro. Così me ne tornavo a casa un po' riscaldato da quelle sensazioni, in fretta, rasente i muri per ripararmi naturalmente dalla pioggia implacabile, anche se, chissà perchè un po' mogio, ma si sa che post coitum omne animal triste est. Poi, cominciato il liceo, non ci andai più, non so perchè, anche se mi risulta fosse luogo in cui si scambiavano occhiate roventi con quell'altro sesso misterioso e distante. Li rividi solo una trentina di anni dopo, portandoci la bambina, ma era ormai l'ora del brucomela e anche la piazza era cambiata, non si sentiva più nell'aria il profumo dei krapfen anche se pioveva sempre. Ieri ci sono passato davanti e mi sembrava tutto deserto; forse sono cambiati gli orari e il sole batteva a picco. Sarà la radioattività giapponese.
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