Rovistare nella borsa di una donna è il miglior modo per conoscerla. È una mattina d’estate, mi sveglio con accanto il corpo di una ragazza di cui non ricordo il nome. Ancora sbronzo, cerco di rimediare cercando nella borsa, ai piedi del letto, un documento, così da andare sul sicuro. Non trovo il portafogli, in compenso faccio una scoperta alquanto interessante. Sepolto tra tre pacchi di tabacco scorgo un libriccino, non più grande di un’agenda Moleskine. Lo prendo e leggo il titolo: “L’anarchia spiegata a mia figlia” di Pippo Gurrieri. La posizione fetale della ragazza e il suo ronfare da gatta mi fanno presagire che dormirà ancora per un bel pezzo. Vado in cucina a farmi un caffè con il passo felpato del libertino impenitente e mi accingo alla lettura. Pippo Gurrieri è una singolare figura nell’anarchismo siciliano. Ferroviere di professione, dirige da oltre trent’anni un mensile anarchico “Sicilia Libertaria”, oltre a un più recente giornale modicano dal titolo “Il clandestino con permesso di soggiorno”. Questa è la sua ultima fatica letteraria che, come deducibile dal titolo, cerca di fare un breve sunto delle idee spesso vaghe che aleggiano sul concetto di anarchia. Andarsi a impelagare in un genere ormai esautorato richiede una componente di originalità o quantomeno di forza verbale assai grande. E, il pur volenteroso autore, in questo, fallisce in pieno la sua missione. Il libro nasce da un’esigenza abbastanza comprensibile: fare chiarezza, soprattutto per le nuovi generazioni, sui concetti cardine che sono alla base della filosofia dell’anarchia. Innanzitutto sin dalle prime battute risulta ipocrita la scelta della forma: il libro è redatto per mezzo di un ipotetico dialogo tra padre e figlia (presumibilmente adolescente). In realtà le battute della figlia sono sempre artificiose, ridotte a meri intercalari e nella maggior parte dei casi a richieste di ulteriori spiegazioni. Un monologo quindi travestito da dialogo. Sarebbe stato più sincero e paradossalmente più scorrevole scegliere un testo solipsistico piuttosto che adottare uno stile che fa solo finta di accogliere il controcanto. Più volte infatti, ci si imbatte in teorie così bislacche o superate dalla storia che una qualsiasi obiezione oggettiva riuscirebbe a mettere in discussione. L’altro pericolo che poteva comportare un simile tomo di aspirazione ecumenica sulle tesi dell’anarchia, viene fastidiosamente conseguito: per 78 pagine si assiste a un superficiale florilegio di spiegazioni sui moventi nobili che muovono gli anarchici. Pericolosa, ad esempio, risulta la distinzione che l’autore fa tra questi ultimi e i terroristi. Egli non condanna la violenza in toto, ma fa un rozzo distinguo: i terroristi colpiscono nel mucchio per creare terrore, gli anarchici invece almeno usano oculatezza nella scelta di obiettivi strategici! È vero che l’anarchia propugna un sovvertimento della società attuale e che il capitalismo non cederà mai pacificamente le armi, ma il tema dell’eticità della violenza avrebbe meritato ben più accorta esposizione invece di essere risolto con facili slogan. Un indottrinamento per partito preso che all’inizio si lascia prendere la mano dall’odio verso lo Stato: nessun governo è quello giusto, perché anche il più riformatore in realtà perpetua il Sistema (parola che lo scrittore ha l’accortezza di non usare mai, pur girandoci attorno con varie circonlocuzioni).
E tra un mare di luoghi comuni si delinea la visione utopica dell’anarchia che il presunto padre vuole trasmettere alla figlia. Un coacervo di egualitarismo, libertà, solidarietà, partecipazione attiva, esproprio della proprietà privata e sovvertimento dell’ordine costituito è quello che ai suoi occhi rappresenta l’anarchia. Insomma, alla fase distruttiva che spesso accompagna le cronache delle azioni anarchiche, per l’autore deve seguire una fase di ricostruzione basata sull’annientamento del privilegio e della gerarchia. L’uomo ha per natura uno spirito egualitario e soltanto per le costrizioni culturali dello Stato (che appaiono fantomatiche, mai calate dall’autore in contesti reali), l’individuo si lascia andare ai rapporti di gerarchia. Questa debole tesi viene esplicata con una metafora risibile: la società autogestita può funzionare a mo’ di un barbecue tra amici, dove ognuno mette a disposizione dell’altro le proprie competenze senza pretendere privilegi per la sua conoscenza. Ora, mi piacerebbe molto fare scampagnate con lo scrittore e i suoi amici per godere dell’idillio che si instaura tra loro, ma quando io partecipo a qualche grigliata c’è sempre la classica litigata tra chi non fa nulla e tra chi recrimina perché si trova a dover fare le pulizie. Fornire come modello questo esempio o quello altrettanto pretestuoso della ricostruzione di una casa dove tutti sono contenti di mettere in campo le loro conoscenze in modo pacifico, denota una parziale e ottimistica visione ontologica dell’essere umano. Se siamo arrivati a questo capitalismo così selvaggio lo abbiamo fatto per il male connaturato nella nostra pelle. Il libro è diviso secondo una stanca tripartizione in POMERIGGIO, SERA e MATTINO. La seconda parte inizia ad acquistare spessore perché finalmente si comincia a citare qualcosa di concreto, come l’esperienza delle fabbriche spagnole nel ‘36. Tutto lascia presagire un approfondimento doveroso ma l’autore persegue con pervicacia la missione che si era programmato: fornire un sunto semplice (io direi semplicistico) dell’idealismo anarchico. Viene infatti fornita soltanto una mezza dozzina di aforismi dei grandi pensatori (peraltro mal collegati col contesto) e al lettore non è dato nessun input per approfondire altrove le tesi redatte. L’autore si avventura naturalmente anche in un discorso sulle religioni e sui loro falsi idoli, continuando a proporre tesi che un medio pensatore ha fatto sue da tempo: la religione è soltanto uno dei tre dogmi (assieme a Stato e Capitale) inculcatici da piccoli che perpetua questa piramide gerarchica nella quale viviamo. Il bisogno di spiritualità è però insopprimibile e nella società autogestita ognuno potrà venerare il Demiurgo che vuole. Più che a una razionalizzazione delle idee anarchiche si assiste quindi a un veloce tracciamento di linee guida per quando l’anarchia prenderà il Potere. Lo stesso autore si accorge di questo ossimoro e precisa che in realtà l’anarchia non predica un non-governo (dalla radice greca del termine), ma un’ALTRA forma di ordinamento basata su relazioni orizzontali. Anche se fu lo stesso Michail Bakunin a creare la distinzione tra anarchici Creatori e Distruttori, la sensazione di facile utopia continua a scorrere anche in questi frangenti. “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare”, è con la celebre massima di Eduardo Galeano che il padre risponde all’unica vera domanda della figlia sul perché si debba allora inseguire l’utopia. Il finale del libro va incontro a una sfacciataggine palese: flebilmente l’autore, attraverso il suo personaggio, cerca di giustificare il suo lavoro di ferroviere alle dipendenze di quello Stato tanto avversato. Lui, quel lavoro lo fa per aiutare la collettività, sempre in prima linea nelle rivendicazioni sindacali. Il caso sarebbe diverso se facesse il banchiere e quindi si arricchisse sulle spalle della povera gente. A parte la demagogia di queste opinioni, ecco venir fuori la solita deriva partitica e settaria: non tutti possono professarsi anarchici, solo chi crede in determinati ideali e seppur non vi siano tessere, l’inclusione non può essere garantita anche a chi fa lavori capitalistici. Insomma, professa quello che vuoi ma bada a non dichiararti dei nostri, ché siamo migliori di te (mi riferisco alla supponenza con cui vengono liquidati gli anarco-capitalisti). Dopo un percorso che più lineare non si può, la figlia a cui è stata spiegata l’anarchia fa una chiusa tremenda e affrettata dicendo che le è venuta fame di libertà e provvederà a saziarla. «Allora, ti è piaciuto il libro di Gurrieri?». Faccio un sussulto, mi giro di scatto e vedo la ragazza con indosso la mia maglietta che stropicciandosi gli occhi mi ha posto la domanda. Diamine, occupato dalla lettura ho dimenticato di cercare il documento e non so ancora come si chiama!