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Cos'era che mi impediva il sonno ieri sera? Non il caldo, troppo secco per infastidire il corpo ormai abituato, non le zanzare in agguato, lo scudo protettivo di garzina funge ottimamente al suo scopo, neanche il cicaleccio delle ragazze che sono nella sala studio accanto e che tutto fanno, come è naturale, invece di studiare. Sarà che domani si riprende la strada verso sud. Certo è un po' comodo lasciarsi alle spalle il muricciolo bianco della missione. Il cancello si chiude con Nina, Graziella e Suor Francesca che salutano e tu te ne vai, mentre i problemi rimangono lì ad aspettare, come le ragazzine che ciondolano nel refettorio prima che comincino le lezioni. Quando si sta qualche giorno in questi luoghi, il lasciarli, ti sedimenta sempre un senso di colpevole dispiacere, di leggero turbamento rivolto a chi rimane a combattere la sua battaglia quotidiana. Alla fine tutto serve per mantenere a mente le cose, a fare un quadro più completo della situazione, a soppesare meglio dubbi e certezze. I giorni passati nella completa pace alla missione, sono stati un intermezzo utile a tutti gli effetti. Lina e Pierangelo, gli amici che si sono accollati l'onere di farmi da badanti, in questo viaggio, sembrano maturare le mie stesse sensazioni, mentre la Toyota, dopo aver attraversato le vie polverose bordate di agavi tra le case e le baracche di Kibaigwa, ritrova la strada nazionale. Ernest si è calcato bene sulla testa il cappellaccio da uomo della savana. Oggi, dopo Dodoma, la strada asfaltata finisce e ci aspettano almeno 300 chilometri di sterrato. Giornata faticosa e ore di sobbalzi continui, polvere gialla che penetra da ogni fessura, si impasta al sudore che cola e tempo per riflettere.
Ma dove sta andando questa Africa e questa Tanzania, così tranquilla e quieta nelle campagne, così affannata e convulsa nelle nuove megalopoli, così povera, ma vitale e viva nei paesi, nei gruppi di gente, nei mercati che attraversi lungo la strada? Da un lato un muoversi lento ed ancestrale, pastori fermi a guardare armenti, contadini che guardano crescere il mais assetato con le foglie vizze che chiede aiuto al cielo, donne con le taniche d'acqua sulla testa a percorrere gli infiniti chilometri che le separano dalla modernità. Dall'altro lato, traffico convulso, mani che compulsano telefonini nervosamente, università con decine di migliaia di studenti e cantieri aperti dappertutto. Tutti di cinesi. Se osservi con attenzione, in ogni angolo, anche il più nascosto scorgi il timbro della Cina. Devi guardare con attenzione, perché a prima vista ti sfugge, tanto è discreta ed elusiva questa presenza, ma osserva bene ed ecco che ogni mezzo pesante che passa, ha in un angolo ancora qualche ideogramma che si sta scolorendo, ogni merce che vedi al mercato ha qualche piccolo marchio mandarino, ogni palazzo di nuova costruzione, siano banche, uffici, alberghi, porta indelebile lo stile e i materiali del celeste impero, le vetrate azzurre a specchio, i gradini irregolari, le piastrelle e i sanitari con ancora incollata la targhetta dai noti caratteri. La Cina ha capito bene l'Africa e le sue grandi potenzialità, che in generale sembrano essere snobbate dall'occidente evoluto, che la giudica solo come un serbatoio di AIDS, di miseria e carestia, di dittatori da corrompere e di guerre, al limite da finanziare.
La Cina considera evidentemente l'Africa come un grande serbatoio di opportunità di cui approfittare per il proprio sviluppo e per l'incremento dei propri affari; un ulteriore sbocco per le proprie merci, così economiche da poter essere collocate anche in paesi così poveri; un ennesimo luogo dove esportare lavoro e attività, da scambiare con le materie prime di cui quella economia ribollente ha costante ed insaziabile necessità. Ogni pista importante che percorri, è affiancata da una nuova strada in costruzione. Chilometri e chilometri di nuovi argini di terra, di sbancamenti, di mucchi di pietre affiancate, pronti per essere distesi, riordinati, asfaltati. E' un continuo incrociare camion e pick up, tra nuvole di polvere che paiono nebbia fitta e continua; poi, di tanto in tanto, ecco gruppi di persone al lavoro con badili e picconi, attorno a una sgangherata macchina movimento terra. A fianco della ciurma delle tante schiene nere, lucide di sudore, curve sotto il sole implacabile, se guardi con attenzione, vedi sempre un grande cappello di paglia con sotto due occhiali con le lenti spesse, che coprono occhi a mandorla, ancora più stretti del solito per difendersi dalla polvere. Controlla, misura, ordina e intanto il nastro avanza di un altro metro tra le colline. Lungimiranza, bieco calcolo neocolonialista?
Difficile valutare, intanto il celeste impero, lavora, lavora, lavora, tra l'ammirazione e qualche inquieto timore africano, mentre esporta quantità enormi di merci e lavoro e in cambio impianta compagnie, compera attività portuali, affitta terreni agricoli e piantagioni, si intesta concessioni minerarie ed esplorative, guadagnando nelle due direzioni, rendendosi al contempo indispensabile e mettendo paletti che poi sarà impossibile scalzare. Noi intanto ci fermiamo esausti e distrutti a Midori, zona di etnia wagogo, quattro capanne di fango tra le colline, attorno ad uno spiazzo di terra rossa. La casa più grande ha un dehors con tavoli e sedie di plastica. Dietro un bancone di cemento, un fuoco di carbonella e una teca di vetro sgangherata piena di scaglie gialle rinsecchite, dovrebbero essere patate fritte. Su una lavagna sul muro leggo chipsy miaya a mezzo dollaro. Indico con la mano. Il tizio, cappellino di lana colorata a nascondere un cespo di treccine rasta, getta uno schizzo di olio sulla carbonella che si infiamma, prende un padellino unto e nero, lo copre di liquido giallastro cavato da una tanica che comincia a sfrigolare, afferra una manata di patate dalla vetrina e ce le mette con due uova, le gira un paio di volte e mi porge il frittatone bollente da sbranare con le mani. Prendo una Mirinda calda da un cesto a terra e mi sbraco su una seggiola. Appena in tempo.
Arriva un pulmino scalcagnato da dove scendono torme di passeggeri accaldati che si affollano attorno al banco. Le frittate vanno che è un piacere e finiscono anche quei tutte le nyama choma che stavano in un vassoione di alluminio a lato; carni varie alla griglia, costine e altro, ecco cosa erano quei pezzi neri carbonizzati di fianco al fuoco. Tutti si affrettano a finire il pasto, poi corrono al buco che sta dietro il muretto, per risalire di corsa sull'autobus che è già in movimento. Poi torna la calma e il cuoco si rimette a sonnecchiare mentre una cicciona, avvolta in un kangha colorato e lucente come uno scatolone di cioccolatini, scopa in un angolo tutti i residui dell'orda. Al di là del muretto azzurro appena ridipinto, che delimita il confine del New Sunpae Restaurant, la venditrice di piccole angurie sciape, coi tre figli che giocano nella terra, ha capito che la giornata è finita. La calma piatta riavvolge le baracche attorno alla piazza attraversata da un gregge di capre. Due ragazzi con la maglietta del Barcellona, all'ombra di un albero possono continuare a giocherellare con i telefonini. Dietro lo spiazzo ancora qualche capanna di fango col tetto coperto di terra rossa dove cresce un po' di erba verde, ancora più indietro si alza una gigantesca antenna della Vodacom. Ancora quattro ore prima di arrivare a Tungamalenga, bungalow di legno tra palme e acacie fiorite. Doccia fredda e birra calda. Il generatore parte alle 18, è l'Africa my friend.
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