Magazine Cultura
Qui alla periferia dell'Impero non avremo i vari Woodstock, Wight, Hyde Park, Loollapalooza, HORDE, ma il Pistoia Blues Festival è uno degli appuntamenti più gustosi dell'anno, e non delude mai. Quest'anno io e Eleonora l'abbiamo presa larga, prendendoci tutta la settimana per un tour motociclistico della Toscana, il cui vertice sono stati i giorni a Pistoia. Proprio la motocicletta ha rappresentato il pretesto per una chiacchierata con i fratelli Robinson, che abbiamo incrociato con la band dietro le quinte poco prima dello show. La curiosità del fatto che io e Eleonora indossassimo le stesse giacche da motociclista ci ha portato a raccontare di moto e di modelli, compreso il fatto che la mia t-shirt riportasse la scritta Triumph, non perché fossimo in effetti in giro con una Bonneville ma più per la copertina di Highway 61 di zio Bob. Chris Robinson, con la sua aria da hippie "stonato", è il vero corvaccio, anche se le sue piume sono piuttosto consunte per la sua età.
Quando i Black Crowes arrivano sul palco è subito rock: un southern rock potente e corposo, un suono impastato e denso quel tanto per farne sincero e sudato rock & roll. Anche se più di un accordo porta alla mente gli Stones (ho preso un passaggio strumentale per Midnight Rambler) ed i Faces, è evidente che in realtà non c'è nulla di British ma un compendio di sound della Cotton Belt, dagli Allman agli Skynyrd alla Muscle Shoals Rhythm Section e dunque anche il "nordico" Bob Seger. L'apertura è tutta classica, con Sting Me, Twice As Hard e Hotel Illness dalla prima irresistibile coppia di album. È evidente da subito che i Crowes, i corvi, sono i due fratelli e gli altri, per quanto straordinari, i loro accompagnatori. La personalità della band sta nella chitarra intensa, distorta, rumorosa e mai scontata di Rich Robinson, e nella straordinaria gamma vocale di Chris che, se pure si arrampica sugli acuti, è capace di farsi al bisogno bassa e profonda, come quando imita il soul di Steve Winwood in Medicated Goo. Chris Robinson è un vero frontman di razza. L'impatto forte della sua immagine è un mix fra un novello Mago Merlino ed un androgino Jesus Christ Superstar, magrissimo, a piedi nudi e con i lunghi capelli lisci che fa vorticare in ogni direzione mentre danza un incessante ballo ipnotico che non interrompe neanche nei lunghi strumentali dei due chitarristi. E come uno sciamano espande il magic spell del suo incantesimo psichedelico che scaturisce dal potente southern rock di canzoni d'impatto come Good Friday, rendendo un poco alla volta lo spettacolo sempre più ipnotico fino a portare il pubblico in trance. Power flower, psichedelia e hard rock. La chitarra di Rich ci va giù dura con gli echi, mentre quella di Jackie Green è più pulita, virtuosa e convenzionale, ma tanto abile che a tratti ho l'impressione di ascoltare un jazzista come Al Di Meola. Adam McDougall è un tastierista boogie di gran pregio, anche se si sente soprattutto nei momenti più tranquilli, ed il batterista Steve Gorman un percussionista, una vera macchina del ritmo. I brani si dilatano, gli assoli si intrecciano, le ballate si fanno acide mentre la band trascina il pubblico nel suo trip. Mano a mano che le ballate confondono i generi, è evidente che una forte ispirazione per Chris è rappresentata dalla voce, acuta, hard e incantata di Robert Plant. Altro che Stones: quando attaccano con gli echi pare proprio di riesumare i Led Zeppelin di Dazed and Confused.
Le due ore dello show volano e prima di rendercene conto stiamo ascoltando l'ultima canzone, la potente Remedy, suonata anche con le mani da un Chris che ne mima il tessuto ritmico. Da qui si scivola al bis con un irresistibile potente mix del soul di Memphis di Hard to Handle con quella Hush che evoca i migliori Deep Purple e gli antichi stregoni del rock duro. Un (lungo) momento indimenticabile. Chris non si è risparmiato, ha dato tutto ed è stremato, ringrazia e fa un cenno ai tecnici che il concerto finisce qui. Con una grande voglia di vederne un altro e soprattutto in una rinnovata consapevolezza della forza del rock & roll, quello che davvero ha segnato la nostra vita.
Difficile avere uguali aspettative per la serata successiva, con i sempreverdi Van Der Graaf Generator, e l'idolo dei teen ager nostrani Steven Wilson, il nerd del neo-prog. Costretti dai capricci del giovane Wilson ad aprire quando ancora il sole splende, la intima "musica da camera" dei tre grandi vecchi, Peter, Guy e Hugh, fatica a prendere in un ambiente grande come Piazza Duomo. È l'ultimo show di un tour coraggioso, in cui i tre musicisti hanno messo in repertorio per la prima volta due suite intense e non facili, Flight e A Plague of Lighthouse Keepers. Il suono è spigoloso, la voce di Peter sofferente, ed il grosso del lavoro in assenza del sax di sicura presa di David Jackson (purtroppo non più nella band) viene eseguito da Guy Evans, un batterista potente e raffinato. Flight è un po' freddo per l'ambiente, ed il gruppo trova il tocco nella Lighthouse Keepers dal leggendario Pawn Hearts, suonata proprio al tramonto, anche se la mancanza della parte di Jaxon è evidente. Non ci sono bis perché il tempo rimasto è di Pierino-la-peste-Wilson, solo un momento per il commovente commiato di Hammill.
I tempi di attesa per lo show di Wilson sono quasi oltraggiosi, mentre sul palco è proiettata una luna e la novella pop star si fa ripulire il palco con un aspirapolvere. Quando alla fine la giovane star arriva sul palco, piccolo e magrissimo, a piedi nudi, con un buffo atteggiarsi a leader, e parte la musica ad altissimo volume, più che a Pistoia sembra di essersi trasferiti in discoteca a Rimini. È evidente che la distanza fra i due gruppi non avrebbe potuto essere più grande. Wilson è figlio della dance, della musica house, dell'hardcore, dell'haevy metal, dell'ecstasy. È più nella cultura dei disk-jockey che del rock, ed il suo pubblico è in effetti troppo giovane per aver ascoltato Hearbreak Hotel. Dopo aver resistito al volume di due o tre brani, divertiti dalle sue movenze un po' naif da wanna-be-a-star, io e Eleonora ci ritiriamo nel backstage, per ascoltare le parole calde e umane di Evans e Banton, davanti ad una bottiglia di vino. E poi fuori, nella affollatissima movida della notte di Pistoia. Grande città, grande festival, grandi persone. E un ringraziamento sopra agli altri a Silvano Martini, il deus ex machina della security, un local hero a cui tutti a questo festival hanno fatto riferimento. E un grazie infine a Davide Bonato per la cortesia e collaborazione.
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