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“Pitagora, Marx e i filosofi rossi. L’effetto di sdoppiamento nella filosofia occidentale”. La Prefazione 2/3

Creato il 09 agosto 2014 da Criticaimpura @CriticaImpura
Karl Marx

Karl Marx

Di ROBERTO SIDOLI, DANIELE BURGIO e LORENZO LEONI

Prosegue dalla parte prima:

 …Collocata e posta in una zona intermedia rispetto alle due tendenze principali, è emersa anche l’interessante e variegata “squadra dei meticci”: e cioè il gruppo dei filosofi (Senofane, Eraclito, Platone, Pico della Mirandola, Giovanni Scoto Eriugena, G. Bruno, Rousseau,  J. Stuart Mill junior, John Rawls, ecc.) che, nel corso dei processi di sviluppo della loro proteiforme elaborazione teorica, ha fatto emergere nelle loro opere  (filosofico-politiche e filosofico-sociali) sia elementi e spunti tipici della “linea rossa” che analisi, tensioni ideali e tesi appartenenti invece a pieno titolo alla tendenza filoclassista in campo filosofico, con un parziale equilibrio al loro interno del peso specifico via via assunto dalle due “anime” teoriche in conflitto/coesistenza reciproca al loro interno.

Usando le immagini e un concetto già elaborato dal grande regista (e filosofo, a modo suo) Sergio Leone nel suo splendido film “Il buono, il brutto e il cattivo”, stiamo esaminando un particolare, mutevole e bimillenario “triello” che ha contraddistinto la dinamica di sviluppo della filosofia occidentale, in una lotta continua (con numerose contaminazioni reciproche, tentativi di sintesi e ricerche di ricomposizione/riconciliazione tra i tre “duellanti”) in un processo di interconnessione quasi costante tra i filosofi “rossi”, “neri” e “meticci” che via via hanno elaborato analisi, progetti e – a volte – pratiche collettive rivolte alla sfera politico-sociale.  

Lo scontro plurisecolare tra “squadra rossa” e “squadra nera”, tra due linee e tendenze alternative in campo filosofico-politico, con l’intervento poi della zona intermedia, “meticcia”, rappresenta una realtà concreta e un “fatto testardo” (Lenin) e di un certo rilievo, dimostrando tra l’altro la persistenza e continuità dell’effetto di sdoppiamento non solo sul piano socioproduttivo, dal 9000 a.C. fino ai  nostri giorni e al terzo millennio, ma anche nel livello della “sovrastruttura” marxiana e delle pratiche sociali tese a produrre idee e teorie filosofiche, concezioni del mondo basate sul connubio variabile tra analisi razionale (autonoma, autodiretta) ed esperienza concreta.

Cos’è l’effetto di sdoppiamento? Ripetendo concetti e metafore già sviluppate in altre opere precedenti, si può notare che secondo la concezione marxista-ortodossa della storia universale, quest’ultima può essere paragonata ad una grande e lunga strada a senso unico, anche se composta da alcune diramazioni secondarie che in seguito si ricollegano al sentiero principale, oltre che da una serie di “vicoli ciechi” che vengono via via abbandonati, più o meno rapidamente.

In questa prospettiva storica, la “grande strada” è formata via via da vari segmenti socio-produttivi interconnessi, seppur ben distinti tra loro (comunismo primitivo/comunitarismo del paleolitico, nella preistoria della nostra specie; fase del modo di produzione asiatico; periodo schiavistico; fase feudale; epoca capitalistica e, infine, socialismo/comunismo), ma essa era ed è considerata tuttora un tracciato predeterminato, almeno in ultima istanza: qualunque “viaggiatore” e società potevano/possono anche prendere delle “scorciatoie” ma alla fine, volenti o nolenti, erano /sono costretti a rientrare nel sentiero di marcia principale e nelle sue variegate, ma obbligate tappe di percorso.

In base ai dati storici allora a conoscenza e a disposizione di Marx ed Engels fino al 1883/95, questa teoria risultava l’unica visione complessiva del processo di sviluppo della storia universale che poteva essere (genialmente) elaborata a quel tempo ma, proprio dopo il 1883/95, tutta una serie di nuove scoperte ed avvenimenti storici portano a preferire una diversa concezione generale della dinamica del genere umano: l’effetto di sdoppiamento.

Immaginiamoci una “grande strada” che, dopo un lunghissimo segmento (fase paleolitica e mesolitica) di scorrimento, si trovi di fronte improvvisamente ad un “grande bivio” ed a una gigantesca biforcazione: da tale bivio partono e si diramano due diverse ed alternative strade, che conducono a mete assai dissimili, senza alcun obbligo a priori per i “viaggiatori” (a causa del Fato/forze produttive) di scegliere l’una o l’altra.

Ma non basta. Non solo non vi è più una sola strada obbligata di percorso, ma – a determinate condizioni e pagando determinati “pedaggi” – qualunque “viaggiatore” e qualunque società umana possono trasferirsi nell’altro tracciato, alternativo a quello selezionato in precedenza, cambiando pertanto radicalmente le proprie condizioni materiali di “viaggio” nell’autobus che stanno utilizzando con altri passeggeri: la scelta iniziale di partenza “al bivio”, giusta o sbagliata, risulta sempre reversibile in tutte e due le direzioni di marcia, in meglio o anche in peggio.

Fuor di metafora, la concezione che proponiamo ritiene che subito dopo il 9000 a.C., ben undici millenni fa nell’Eurasia del periodo neolitico, con la scoperta dell’agricoltura, allevamento e artigianato specializzato, si sia creato e riprodotto costantemente fino ai nostri giorni un “grande bivio”, da cui si sono diramate due “strade”, due linee e due tendenze socioproduttive di matrice alternativa, l’una di tipo comunitario-collettivistico e l’altra di natura classista, fondata invece sullo

sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Pertanto dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri giorni, nell’era del surplus e dai tempi lontani neolitici della Gerico collettivistica dell’8500 a.C., non sussiste alcun determinismo storico, ma altresì un campo di potenzialità oggettive (sviluppo delle forze produttive e creazione/riproduzione ininterrotta di un plusprodotto accumulabile… l’era del surplus) su cui si possono innestare, e si innestano poi concretamente e realmente delle prassi sociali contrapposte, volte a condividere in modo fraterno mezzi di produzione/ricchezza/surplus o, viceversa, a fare in modo che essi vadano sotto il controllo e possesso di una minoranza del genere umano, in entrambi i casi con immediate ricadute anche sulla sfera politico-sociale delle diverse società.

Detto in altri termini, a parità di sviluppo qualitativo delle forze produttive e già formatisi elementi cardine quali agricoltura/allevamento/surplus costante, fin dal 9000 a.C. per arrivare ai nostri giorni era possibile che si sviluppasse sia l’egemonia di rapporti di produzione collettivistici, che quella alternativa di matrice classista: un effetto di sdoppiamento nel quale nulla era/è tuttora scritto a priori, nei libri mastri della Storia.

Situazione di “sdoppiamento”, potenziale/reale, valida nel 9000 avanti Cristo ma anche nel 2014 della nostra era, valida nel 8999 a.C., ma anche nel prossimo anno e nei prossimi decenni: uno stato di sdoppiamento ed un’alternativa radicale nei rapporti di produzione possibili e praticabili sul piano storico, che da undici millenni esclude a priori qualunque forma di determinismo storico e di metafisica basata sul “progresso inevitabile” del genere umano.

Certo, qualunque regressione ad uno stadio paleolitico basato sulla caccia/raccolta di cibo era ed è tuttora impedita proprio da quel processo di sviluppo qualitativo delle forze produttive, da quell’“era del surplus” costante/accumulabile che determina il sorgere e la riproduzione ininterrotta dell’effetto di sdoppiamento. Ma astraendo da tale “dettaglio” non trascurabile, negli ultimi undici millenni il corso della storia universale è diventato decisamente multilineare, composto com’è dal “bivio” e da due “strade” alternative in campo socioproduttivo e politico, la cui logica più profonda risulta essere l’antideterminismo e l’emersione costante di un campo di potenzialità alternative, nel quale la pratica collettiva degli uomini del passato, presente (noi stessi…) e del futuro assume un ruolo decisivo, sotto tutti gli aspetti”.[1]

Diventano in ogni caso necessarie alcune precisazioni, prima di avviare il viaggio avventuroso tra le agitate e tumultuose correnti del “oceano-filosofia”.

Va innanzitutto sottolineato come la differenza tra “linea rossa” e “linea nera” in campo filosofico-politico spesso coincida con la grande faglia di separazione tra esponenti materialistici (=primato e priorità temporale della materia rispetto allo spirito e alla coscienza-intelletto) e pensatori idealistici (primato delle idee/spirito rispetto alla materia): ma non sempre e non in ogni caso, e vi sono anzi numerosi esempi di segno contrario in tutte e due le direzioni.

Ad esempio Tertulliano risultava profondamente cristiano, ma del genere “rivoluzionario-apocalittico”.

E a sua volta Dolcino, per la sua elaborazione filosofico-religiosa apparteneva chiaramente al campo filosofico di matrice idealista, a causa della sua appassionata fede nell’esistenza-onnipotenza della divinità cristiana, oltre che nella prossima venuta salvifica-apocalittica di uno (splendido) Gesù-liberatore degli oppressi, rientrando sicuramente nella categoria dei filosofi per cui “l’idea” e/o lo “spirito” (Dio, nel caso in oggetto) preesistevano alla formazione della materia: ma altrettanto chiaramente, come del resto vale per il suo lontano maestro spirituale Gioacchino da Fiore, l’eroico frate italiano che espose una concezione filosofico-politica di matrice comunista, facente parte a pieno titolo della “linea rossa” in campo filosofico.

Rousseau era un filosofo idealista, ma egualitario e democratico; Fichte risulta addirittura un idealista soggettivo, ma allo stesso tempo un pensatore almeno in parte vicino al socialismo utopistico, e a sua volta anche il comunista Karl Liebknecht, ucciso dai militari e dalla socialdemocrazia tedesca nel gennaio del 1919, si dichiarava idealista (“più deciso di Fichte”) in campo filosofico: l’elenco potrebbe allungarsi ancora di più. Passando poi al campo del materialismo filosofico, David Hume, Hobbes e Holbach risultavano spesso vicini a posizioni materialiste, ma animati in ogni caso da una precisa scelta di campo classista, come del resto Nietzsche e le sue posizioni aristocratiche e antisocialiste ben descritte da D. Losurdo nel suo eccellente saggio “Nietzsche, il ribelle aristocratico”.

Pertanto il criterio essenziale per distinguere tra le due tendenze in via d’esame non consiste nella scelta filosofica tra materialismo e idealismo o nell’appartenenza sociologica dei singoli pensatori alle classi sociali dominanti, visto che anche Marx, Engels e Lenin non risultavano sicuramente di famiglia operaia (o divenuti operai nel corso della loro vita); ma viceversa nell’elaborazione di prospettive intellettuali corrispondenti agli interessi politico-sociali delle classi dominanti o, in alternativa, a quelli delle masse sfruttate (schiavi, servi della gleba, operai) e al processo di costruzione di una società libera da sfruttamento e oppressione, senza necessariamente (vedi Pitagora, Lucrezio, ecc.) scegliere prospettive rivoluzionarie a favore del comunismo.

In secondo luogo, il campo di indagine di questo saggio è stato volutamente limitato solo al processo bimillenario di sviluppo della filosofia occidentale, non prendendo in esame la dialettica via via creatasi tra tendenza classista e quella collettivistica all’interno della splendida e sofisticata filosofia cinese, oppure di quella indiana, araba ed ebraica.

Se il lavoro in via di esposizione susciterà un minimo di interesse e di  dibattito, saremo sempre in tempo ad allargare il raggio d’analisi a pensatori filosofi di matrice “meticcia”, quali ad esempio in Cina un filosofo quali Mo-ti, o completamente “rossi”: come furono ad esempio sia il geniale fondatore del taoismo, Lao-Tzu (il cui modello utopico “era il collettivismo tribale primitivo”, secondo il grande storico marxista J. Needham), oltre ai grandi filosofi K’ang Yu-Wei (1858-1927) e Mao Zedong, per citare solo alcuni dei suoi esponenti principali.[2]

Terzo chiarimento: la filosofia occidentale, almeno alle sue origini, non risulta per sua natura o necessità divina destinata ad un “corporazione” (Onfray) e a una “setta” che confischi “il sapere filosofico in vista della sola riproduzione della propria casta professionale”, come ad esempio sta avvenendo quasi ovunque nel mondo capitalistico avanzato, a partire dal 1975/79. Parafrasando Gramsci, risulta invece che ciascun uomo risulta un filosofo embrionale, anche se molto spesso egli non sa di esserlo,  non produce una propria filosofia particolare e riflette in modo solo sporadico e occasionale sulla “vita” (Fung Yu-Lan) e sui suoi enigmi: immortalità dell’anima, Dio, senso dell’esistenza, felicità, ecc.[3]

L’uomo (cosiddetto) comune, normale e ordinario risulta in possesso di grandi potenzialità anche nel campo dell’attività creativa, a patto che egli si impegni continuamente verso di essa attraverso un progetto mirato: secondo il neurobiologo Semir Zeki ogni uomo risulta creativo a modo suo, come del resto sostenevano anche il grande Picasso e Fidel Castro. “Né dovremmo limitarci a considerare l’arte, la musica e la letteratura le uniche facoltà del mondo creativo. Perché la creatività vale anche per i bambini che costruiscono castelli di sabbia, per chi perfeziona l’arte della conversazione, per le capacità gestionali e per molte altre attività e azioni umane. Anzi, la difficoltà è identificare azioni e attività dove l’elemento creativo sia assente. La creatività e l’immaginazione sono dunque attributi di cui ogni cervello è in vario grado miracolosamente dotato, e che in vario grado esprime nelle sue attività. La creatività è, per così dire, la strategia del cervello per supplire ai propri limiti”.[4]

Serve solo un nuovo modo di filosofare, che è allo stesso tempo molto antico e molto comunitario, anche se quasi dimenticato ai nostri tempi.

“In che cosa consiste questo nuovo modo di filosofare? Un modo assai antico… perché è quello dell’agorà e del foro. Esso definisce la maniera antica di praticare una filosofia aperta destinata al passante ordinario: Protagora lo scaricatore, Socrate lo scultore, Diogene l’assistente banchiere, Pirrone il pittore, Aristippo l’insegnante sono dei veri filosofi – creatori di visioni del mondo, autori di opere teoriche, vivono il loro pensiero nel quotidiano e conducono una vita filosofica – non sono professionisti della professione come i postmoderni.

 Allo stesso modo non si rivolgono a specialisti destinati all’insegnamento, o alla ricerca filosofica. Parlano al pescivendolo, al carpentiere, al tessitore che si trova a passare di là e, a volte, si ferma, ascolta, aderisce e si converte a un modo di esistenza specifico teso alla creazione di sè come soggettività felice, in un modo dominato dalla negatività”.[5]

Anche a nostro avviso, per riprendere respiro e forza propulsiva dopo la sua decadenza iniziata nel 1975/79, la filosofia deve tornare ad essere un “commons” concreto e un “bene comune” che interessi direttamente anche e soprattutto gli operai e lavoratori salariati, come aveva già notato l’eroico comunista (e filosofo) G. Politzer nel 1935.[6]

Utilizzando a tale scopo e traducendo in parole semplici e concrete anche i migliori messaggi filosofici, più o meno elaborati, che sono stati via via espressi nell’ultimo secolo dall’arte contemporanea: non solo dal cinema, ma anche dalla pittura (si pensi solo alla geniale Guernica di Picasso) e alla letteratura, come nel caso del libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, e della raccolta di poesie “La vita non è sogno” di Salvatore Quasimodo, per usare solo due dei tanti esempi a disposizione.

Anche attraverso il nuovo e creativo processo di simbiosi tra filosofia e arte, a nostro avviso la filosofia può tornare a essere un prezioso patrimonio collettivo, strettamente collegato alla riflessione individuale e collettiva sull’esistenza umana (felicità, senso della vita, morte e continuità della specie, ecc.: Epicuro, per fare solo un esempio), sugli attuali rapporti sociali e politici e sulla dinamica di sviluppo della scienza/tecnologia contemporanea: su quest’ultimo aspetto Lukacs aveva notato del resto che già nel 1500 e in epoca rinascimentale, in seguito all’impetuoso sviluppo delle scienze naturali, vennero spontaneamente e quasi senza mediazione teorica “posti e risolti nelle scienze, spesso senza consapevolezza filosofica, problemi dialettici” e tutta una serie di questioni strettamente filosofiche.[7]

Quarta precisazione. Il termine materialismo, nel libro in via d’esposizione, verrà utilizzato solo per e nel suo significato filosofico, come concezione del mondo fondata innanzitutto e principalmente sul primato ontologico e temporale della materia sullo “spirito”, significato totalmente diverso dal senso ordinario e dispregiativo assunto dal termine e divenuto di regola sinonimo di crassa avidità, egoismo, brama esclusiva dei beni terreni, assenza di ideali e altruismo, ecc.: sussiste tuttavia una seconda “radice” e un secondo contenuto proprio di regola del materialismo in campo filosofico, e cioè l’apprezzamento dei piaceri terreni e della stessa corporeità umana, in una valutazione positiva che molto spesso i filosofi idealisti, a partire da Platone, hanno invece negato con forza.

Concordiamo pertanto con Onfray almeno sulla necessità di rivalutare radicalmente il “corpo umano e le passioni fisiche” (a partire dalla fondamentale coppia cibo/erotismo), contestando radicalmente le diffuse concezioni idealistiche (sul piano filosofico, non certo intese come amore degli ideali e dell’altruismo) che esprimono “odio del corpo” accompagnato all’esaltazione “dell’anima… e disprezzo per la carne sensuale”, proprio nel campo della produzione di idee.[8]

Ha notato Onfray, proprio riferendosi a tale vizio di origine dell’idealismo filosofico, che “la scrittura della storia della filosofia greca è platonica. Di più: la storiografia dominante nell’Occidente liberale è platonica… Platone la fa dunque da padrone perché l’idealismo, facendo prendere le lucciole mitologiche per lanterne filosofiche, permette di giustificare il mondo così come è, e di invitare a distogliersi da quaggiù, dalla vita, da questo mondo, dalla materia del reale, verso quelle finzioni infantili a cui si riducono tutte le religioni: un cielo di idee pure che sfugge al tempo, all’entropia, agli uomini, alla storia, un oltremondo popolato da sogni screditati di una realtà superiore al reale, un’anima immateriale che salva gli uomini dal peccato di incarnazione, la possibilità per l’homo sapiens, che dedica scrupolosamente tutta la sua vita a morire mentre è ancora vivo, di conoscere la felicità angelica di un destino post mortem – e altre insulsaggini con cui si è costruita quella visione mitologica del mondo in cui molti stanno ancora a marcire. Certo, Platone non è Descartes, il quale non è Kant, ma questi tre, dividendosi venti secoli di mercato idealistico, monopolizzano la filosofia, occupano ogni posto, e all’avversario non lasciano nulla, neanche le briciole”.[9]

Onfray ha in parte ragione su questo punto specifico, ma sottovaluta un altro importante processo politico-intellettuale di “rimozione” avvenuto rispetto alla dinamica bimillenaria di sviluppo della filosofia occidentale, anche per responsabilità diretta di molti filosofi: e cioè che i filosofi “rossi e sovversivi”, a partire dai pensatori cinici, sono stati il più possibile messi in un angolo e quasi dimenticati dalle multiformi storie della filosofia via via elaborate nell’area occidentale.

Solo sguardi fugaci, nel migliore dei casi, e molto più spesso il silenzio hanno infatti circondato alcuni teorici interessanti e collocati su posizioni antagoniste rispetto alle strutture socioproduttive classiste del loro tempo, quali ad esempio:

  • Pitagora, il geniale fondatore della dialettica e dell’idealismo filosofico in terra occidentale;
  • Tertulliano, con il suo “tutto è comune tra noi, tranne le donne”;
  • Marcione;
  • Raterio da Verona
  • Gioacchino da Fiore;
  • Ruggero Bacone
  • Fra Dolcino (non solo un eroico rivoluzionario comunista, ma anche un notevole pensatore);
  • Rothman, il teorico degli anabattisti della Comune di Munster del 1534/1535;
  • Campanella;
  • Meslier, con il suo “testamento” ateo e comunista;
  • Adam Weishaupt, filosofo panteista (oltre che fondatore della setta degli Illuminati di Baviera) e comunista.

Stando almeno alla grande maggioranza degli storici occidentali, sembra quasi che il “filo rosso” in campo filosofico sia iniziato con Rousseau, mentre invece esso “viene da molto lontano” (Gramsci) e si svilupperà ulteriormente anche nei prossimi decenni. Certo,  l’egemonia culturale è rimasta  all’interno della filosofia occidentale quasi sempre nelle dure “mani” teoriche della tendenza filoclassista, ma importanti (seppur diversissimi tra loro) pensatori quali Lucrezio e Marx, Marcione e Lenin, Lukacs e Gioacchino da Fiore hanno via via permesso alla (variegata e composita) linea collettivistica della filosofia occidentale di riprodursi storicamente come una seria e consistente controtendenza egualitaria, in grado di incidere realmente nel corso del processo di sviluppo bimillenario della praxis teorica rivolta ad una indagine a tutto campo, allo stesso tempo razionale e colma di “meraviglia”, rispetto agli enigmi e problemi più importanti dell’esistenza umana. 

Serve inoltre introdurre un utile precisazione, anti-eurocentrica, rispetto ai primordi (quasi completamente rimossi) della filosofia universale: sotto questo aspetto il punto più importante diventa il fatto che la filosofia (intesa come analisi della realtà basata su esperienza/ragione capace di produrre categorie teoriche di interpretazione/trasformazione della realtà) trovò il suo punto di irradiazione in Cina e non nel mondo greco. Infatti la prima tesi filosofica a noi conosciuta risale addirittura al nono secolo a.C. con la teoria cinese dei “Cinque Elementi”, contenuta nella sezione “Il grande progetto” del “Libro dei documenti storici”. Testo antichissimo, pertanto, nel quale vengono menzionate e descritte le cinque forze attive che determinano l’evoluzione e la struttura fondamentale dell’universo, acqua, fuoco, legno, metallo e terra: un pentagono di forze materiali che combinate in modo mutevole tra loro, determinano lo sviluppo dell’universo e del genere umano, e proprio nella più tarda filosofia greca troveremo almeno due di esse (l’acqua per Talete, il fuoco per Eraclito) come punti di elaborazione del pensiero razionale occidentale sull’ontologia.[10]

Sesto approfondimento: da dove nascono in ultima analisi le questioni fondamentali e le “domande” tipicamente filosofiche?

Su questa tematica va notato come l’uomo sociale sia via via diventato attraverso la sua stessa praxis sociale, a partire dal lavoro, un animale che si pone collettivamente delle domande (su se stesso e sul mondo circostante) di natura non-genetica e non-istintiva, tentando di fornire ad esse delle risposte, giuste o sbagliato che esse si rivelino nella e attraverso la pratica sociale, e si pose delle domande non-genetiche e per così dire “artificiali” già dal momento in cui egli costruì, circa due milioni di anni fa, i suoi primi strumenti in pietra attraverso l’uso di altri utensili, creando l’avvio del processo tecnologico e del lavoro umano: un processo fondamentale e un salto di qualità gigantesco rispetto alle altre specie viventi che è stato parzialmente riflesso, in modo geniale anche se misticheggiante, nella prima parte del film “2001. Odissea nello spazio” del grande regista (e filosofo, a modo suo) Stanley Kubrik.

Due anni prima di Kubrik, G. Lukacs notò giustamente nel 1966 che “l’uomo primordiale, da cui prima ho preso le mosse, trova delle pietre in qualche luogo. Una pietra può essere adatta a tagliare un ramo e un’altra no e questo fatto – essere o non essere adatto – è un problema assolutamente nuovo, che nella natura inorganica non esiste, perché quando una pietra rotola giù da una montagna non è una questione di successo o di fallimento se cade intera oppure si spacca in due o cento pezzi. Mentre dal punto di vista della natura inorganica ciò è completamente indifferente, la comparsa del lavoro (e anche di quello più semplice) fa sorgere il problema dell’utile e dell’inutile, dell’adatto e dell’inadatto, un concetto di valore. Quanto più si sviluppa il lavoro tanto più estese divengono le rappresentazioni di valore implicate; e in modo tanto più sottile, e su di un più alto piano, si pone il problema se una data cosa, in un processo che diventa sempre più sociale e complesso, sia adatta oppure no per l’autoriproduzione dell’uomo…

Prosegue alla parte terza…

[1] R. Sidoli, “Logica della storia e comunismo novecentesco”, prefazione, ed. Petite Plaisance

[2] L. V. Arena, “La filosofia cinese”, p. 36-302-308-312, ed. Rizzoli

[3] Fung Yu-Lan, “Storia della filosofia cinese”, p. 56, ed. Mondadori

[4] Semir Zeki, “Splendori e miserie del cervello”, p. 224-225, ed. Codice

[5] M. Onfray, “Le saggezze antiche. Controstoria della filosofia”, p. 11-12, ed. Fazi

[6] G. Politzer, “Principi elementari di filosofia”, in http://www.marxists.org

[7] G. Lukacs, “La distruzione della ragione”, op., cit., p. 109

[8] Op. cit., p. 130

[9] M. Onfray, op. cit., p. 68

[10] L. V. Arena, “La filosofia cinese”, p. 7-120, ed. Rizzoli


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