Ogni tanto mi rileggo. Mi rileggo di più, scrivo di meno. Ché di scrivere mi va sempre a corrente alternata e che le cose che vorrei dire ce le ho tutte dentro ma non riesco a dirle (banale). E quando le pronuncio perdono di senso, di valore, si svuotano della bellezza, della paura. Si svuotano e basta.
(Per questo i libri si devono leggere solo con gli occhi, perché le parole pronunciate, automaticamente non ci appartengono più e il tono che volevi dare ad una frase, per quanto tu possa essere bravo con la punteggiatura, non è mai quello di chi la legge. Non leggete ad alta voce alle presentazioni dei libri, le pagine dei libri che presentate. Non fate leggerle ad altri, non leggetele voi. Ché il rapporto con la parola scritta è una cosa uno a uno, pieno di ostacoli per le eventuali intromissioni).
Rileggo quello che ho scritto e mi accorgo che deve sembrare banale letto da fuori, ma tant’è. Banale, se volessimo utilizzare un metodo di tag, sarebbe la parola che più ricorre nelle cose che scrivo. Inquietudine forse lo è di più. Però è un tag impalpabile, non sempre esplicitamente scritto, ma presente sempre. Se i tag fossero un sistema più intelligente o forse lo sono già e io non lo so, l’inquietudine sarebbe segnalata più e più volte.
Rileggo più di quanto stia scrivendo e resto in silenzio quando lo faccio fino a quando non mi si secca la bocca e a me si secca sempre quando sto zitta e leggo e scrivo di meno di quanto legga.
Inquieta anche a maggio, con i fiori e l’aria calda e ho letto tra le cose vecchie che l’inquietudine non è necessariamente un male: serve a stare sospesi, come in acqua. Ed è un dato di fatto. (Banale).
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