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Più ombre per tutti

Creato il 08 agosto 2014 da Abattoir

di Pigi Arisco http://pigiarisco.wordpress.com/2011/04/06/piu-ombre-per-tutti/#more-106

Londra, ottobre 2004

Passeggio con mia sorella.
Chiacchieriamo e ci godiamo la bella vista che offre la sponda destra del Tamigi.
Passiamo davanti un grande edificio. Un’insegna enorme dice “World Press Photo”.
Entriamo.
La prima vera mostra fotografica della mia vita, impeccabile nell’esposizione e nell’organizzazione.
Comincio a guardare le foto.


Rimango strabiliato dalla bellezza e dall’intensità delle immagini.
Quando sei catapultato in un labirinto di pareti dove ogni lato ti offre colori ed immagini così belle, fai presto ad abituarti.
Dopo le prime immagini cominci a volere di più, a cercare l’eccezionale, incredibilmente scioccante, come se avessi passato la vita a sfogliare capolavori.
Indossi subito il vestito del critico e cominci a guardare distrattamente le immagini, leggendo subito la didascalia, per avere un’idea di cosa si tratta, per poter formulare il tuo giudizio. 
Giravo per quel labirinto riflettendo come quelle immagini speculassero un po’ troppo sulla morte e la sofferenza.
Fatta eccezione per la categoria “sport”, trattavano tutte di malattia, morte, disperazione e torture.
La foto vincitrice è la celebre immagine del prigioniero iracheno con cappuccio di tela in testa che, seduto, abbraccia e protegge il figlio nell’atrio del carcere di Abu Grahib.
Mi colpisce parecchio, ma passo comunque avanti cercando qualcosa che non tratti di sofferenza e morte, e così la vedo.
Un ponte.
Le paratie in cemento.
Per terra centinaia di bossoli di grosso calibro.
Sullo sfondo, leggermente offuscate dal fumo, case fatiscenti.
Al centro della foto sospeso a mezz’aria c’è lui, il protagonista.
Rimango estasiato, un ragazzo nero a torso nudo, molto bello con una chioma come quella dei Rasta, corta però, solo una ventina di centimetri.
È giovane e mi ricorda tanto la prima volta che ho conosciuto un nero da vicino.
Avevo dieci anni e lui venne a casa nostra per le pulizie domestiche. Si chiamava Robert. Veniva dal Ghana. Uno degli argomenti preferiti dai razzisti è che i neri fanno puzza, dicono che sudano di più e che il loro odore è troppo forte, fastidioso. Beh, per me era vero che avessero un odore diverso, Robert però odorava sempre di detersivo. Era tra le persone più profumate che avessi mai conosciuto.
Che tipo Robert!
Si faceva la barba con la ceretta, così durava di più, e poi prendeva sempre il mio walkman per ascoltare la musica.
Glielo prestavo volentieri, era uno spasso vederlo passare lo straccio a torso nudo con il walkman mentre ondeggiava i fianchi a ritmo di musica.
Sorrideva sempre.
Ricordo mia madre che diceva: “Non capisce una parola di quello che dico, però quanto è bello quando mi sorride in quel modo!”.
Il ragazzo della foto che esulta con un lanciagranate in mano mi ricorda proprio il sorriso di Robert.
Bocca aperta, denti bianchissimi, zigomi tondi spinti in alto quasi a coprire gli occhi.
La felicità incontenibile.
Indovinare cosa pensa il giovane guerriero è fin troppo facile: “L’ho colpito!” sta dicendo.
A vederlo così vestito dei soli pantaloni si prova automaticamente simpatia.
È sicuramente un ribelle, una ragazzo che ha lasciato la famiglia per andare a combattere per ottenere la libertà. Dall’altra parte ci sono per forza i potenti, quelli con le divise e le armi più grosse, i vigliacchi con l’artiglieria pesante.
Chissà la festa che gli avranno fatto la sera i compagni, chissà l’ubriacatura che si sarà preso per festeggiare un simile successo. Magari il suo comandante gli avrà anche dato un premio. Magari un giorno di riposo dalla battaglia.Un giorno senza sparare ai cattivi.
I cattivi già, penso anche a loro, dall’altro lato del lanciagranate ci saranno stati morti e feriti, gente letteralmente a pezzi che starà morendo in una pozzanghera di sangue e merda, che starà tremando dal freddo e dalla paura mentre i ricordi di una vita fanno la loro ultima comparsa.
Ancora morte e disperazione, però nascoste dietro il successo del ribelle, che ha dato una lezione ai cattivi.
Questo mi piace.
È un peccato che questa foto non abbia vinto il primo premio.
È giunto il momento di leggere la didascalia.
Titolo: Comandante che esulta.
Comandante, penso, come il Che.
“Un comandante delle milizie liberiane fedeli al governo esulta dopo aver sparato un razzo contro le forze ribelli”.

Che delusione!
Si tratta di un mercenario al servizio di un governo corrotto e autoritario.
Accidenti, ero contento del suo successo, avevo condiviso con lui quel momento di gioia. Avevo quasi sposato la sua causa!
Ed invece è solo un mercenario che ha fatto bene il suo lavoro ed il premio che avrà sarà probabilmente quello di entrare per primo nella prossima casa per prendere le cose più preziose e le donne da stuprare.
Vorrei vederlo morto!
La foto però continua a rimandarmi un’incontenibile esplosione di gioia.
Se in questo momento uno dei ribelli gli sparasse un colpo, sarebbe lui quello nella pozzanghera a tremare di paura.
Già, e dall’altro lato ci sarebbe un altro come lui a saltare di gioia.
Forse è per questo che si sceglie spesso di mostrare la sofferenza, perchè evoca pietà e compassione. Tutti sentimenti che ci fanno sentire migliori.
Ma la felicità? Quella è contagiosa e fa star bene, ma porta con sé una sorta di dualismo, se qualcuno festeggia, qualcun altro soffre.

Ma no! Mi dico, è solo che sto guardando la guerra, la cosa più orribile al mondo, se provo ad immaginare il mio mondo, quello quotidiano, è tutta un’altra storia!
L’amore per esempio. La gioia che scoppiava nel petto di entrambi, che male poteva fare?
Poi mi torna in mente il pianto della mia ex che sperava ancora di tornare con me, e lo sguardo triste e arrabbiato di quel mio amico che avrebbe voluto per sé la ragazza che adesso è tra le mie braccia.
No. Mi ripeto, ho preso l’esempio sbagliato, e poi si sa, l’amore e la guerra sono sempre stati presi ad esempio per la loro reciprocità.
Cerchiamo qualcos’altro.
Il lavoro…?
No, le promozioni che generano invidia, gli aumenti ingiusti, i raccomandati, peggio ancora.
Mi rattrista pensare alla felicità.
Sembra quasi che sia impossibile ottenere la felicità senza toglierla a qualcun altro.
Sembra. Io però non rinuncio e continuo a provarci.


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