Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 26 aprile 2013
La sfida chiave per il nuovo
governo sarà, ancora una volta, l'economia. L'esecutivo guidato da Mario
Monti era nato debole, pur avendo avuto, non troppo diversamente da quello in
via di formazione, il sostegno di un ampio schieramento parlamentare. Aveva
promesso austerità di bilancio e riforme. L'austerità non è mancata, le
riforme, ben più complesso obbiettivo, meno. Tuttavia molti tra coloro che
promettono oggi di sostenere l'esecutivo Letta hanno condotto la campagna
elettorale contestando l'agenda Monti, largamente riproposta nel documento dei
saggi. Ci muoviamo, dunque, su un terreno pericolosamente accidentato, anzi
minato.
Il prossimo governo non nasce
con la coesione di un fronte nazionale che possa ricomporre l'Italia su un
programma ambizioso di riforma. Non c'è una piattaforma condivisa nella Grande
coalizione che lo sosterrà mentre si consolida la diffidenza dei cittadini.
Qualcosa però si può fare,
aggirando le asperità politiche maggiori. Io credo che si debba iniziare
un'opera coraggiosa, unendo lo sforzo di più ministeri, per semplificare
drasticamente la macchina statale, tagliandone i costi, migliorandone il
servizio al pubblico anche attraverso un mutato rapporto tra l'amministrazione
centrale e quella locale. Questa dovrebbe essere la bandiera del nuovo
esecutivo.
È un terreno pericoloso
perché nelle pieghe dello Stato si annidano privilegi e rapporti di scambio che
hanno distrutto il nostro bene comune più caro: la fiducia dei cittadini nei
confronti dello Stato. È un percorso che richiede coraggio e alleanze anche
trasversali. Va fatto con un'attenzione minuziosa alla trasparenza e alla
comunicazione che dovrà essere chiara e dettagliata nell'illustrare quanto si
sta provando a fare. La spinta al cambiamento e alla partecipazione che si è
manifestata in queste ultime elezioni va sfruttata per dare forza a questo
progetto. Per soddisfare una domanda che si leva con forza dalla base del Paese
non basta che i ministri vadano al lavoro in bicicletta. Le dosi omeopatiche di
trasparenza non sono più sufficienti. I nuovi ministri dovranno spiegare con
evidenza cristallina il proprio operato, e strutturare un'efficace
comunicazione per ricucire il rapporto con gli elettori. La scatola nera del
governo nazionale e locale dovrà essere aperta, tutti dovranno poter
comprendere quali sono gli ostacoli, le ragioni di successi e fallimenti. Per
questo è cruciale che i cittadini non siano solo spettatori, ma che possano
partecipare in modo innovativo al cambiamento e alla gestione della cosa
pubblica. Esperienze simili sono state fatte in altri Paesi. Comportano
l'adozione di misure politiche che, in linea di principio, non hanno colore.
Misure trasversali capaci di unire invece che dividere.
Il principio è semplice, ma la
realizzazione pratica richiede cambiamenti importanti. Il governo che
verrà, pur nascendo intrinsecamente debole, potrebbe, in realtà, avere la forza
per avviare un processo radicale perché per poter sopravvivere dovrà instaurare
un rapporto diretto con gli elettori oltre che con partiti quanto mai
discreditati.
Ovviamente tutto questo non
potrà ridare fiato immediato all'economia. Nel breve periodo vanno
diminuite le tasse sul lavoro e va dato sostegno al reddito di chi, il lavoro,
non ce l'ha. Le proposte ci sono, anche suggerite nei documenti della Banca
d'Italia, ma costano care. I soldi vanno recuperati con tagli aggressivi ai
costi dello Stato, lungo le linee prima accennate.
C'è anche qualche margine per
ottenere più flessibilità da Bruxelles sul rigore dei conti pubblici. Il
negoziato va dunque aperto, ma non deve dare adito a eccessive illusioni. Il
margine esiste, ma è limitato e si basa su tre elementi. Il più importante -
spunto di utile riflessione - è che l'Italia, non avendo sforato il limite del
3% del deficit pubblico nel 2012
ha acquisito credibilità. In secondo luogo le previsioni
indicano un rallentamento per tutta l'Europa, compresa la Germania, scenario
che potrebbe indurre Berlino a considerare una maggiore flessibilità. In terzo
luogo esistono fattori specifici che si potranno far valere in sede negoziale.
Mi riferisco, per esempio, al peso sul nostro debito del contributo che
versiamo al Fondo salva Stati europeo, oppure all'eccezionalità dei debiti
dello Stato verso le imprese. È dunque essenziale che l'Italia imbocchi la via
del negoziato, ma senza mettere in discussione gli impegni di medio periodo. La
politica antiausterità può essere fatta solo su queste basi, con una
contrattazione realistica e consapevole delle dinamiche europee. Sarebbe
velleitario invocare improbabili battaglie senza quartiere, generiche e
irrealistiche tenzoni contro un'Europa che ci affama.
Puntiamo invece a riprendere
il controllo di ciò che possiamo controllare noi, del nostro bene comune,
cioè, lo Stato. Facciamone, ripeto, la bandiera di questo governo, affrontando
l'anomalia di una macchina statale vetusta, costosa e inefficiente che ci rende
molto diversi anche da Paesi a noi vicini come la Spagna.
Un altro governo, con le
spalle più larghe, se un giorno arriverà, potrà imbarcarsi su un progetto
ancora più ambizioso, capace di ripensare globalmente il modello del
capitalismo italiano. Ma gli obbiettivi qui illustrati, sebbene più limitati,
sono già molto ambiziosi e potrebbero essere le basi per una riflessione
costruttiva e soprattutto collettiva sul nostro futuro.