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Nonno Carmelo era un personaggio, mia nonna se ne invaghì perché era un figo e non perché avesse avuto modo di conoscerlo davvero prima di sposarlo. Era uno di quelli che non doveva chiedere mai, moro dagli occhi cerulei, temprato dalla prigionia in Africa durante la seconda guerra mondiale e testardo come un mulo. Amava la pesca più del suo lavoro e appena poteva scappava al molo per concludere la giornata senza neanche togliersi la divisa. Almeno così ricorda sorridendo mio padre che quasi riponeva la sua in un tabernacolo. Mio Nonno era un tipo riservato, di poche parole, scorbutico a tal punto da aver creato con i suoi tre figli un rapporto di ossequioso distacco. Sapevano tutti come era fatto, era rumuliune (lamentoso, come me), chiedeva rispetto e nulla più essendo un vegliardo vecchio stampo. Ma spesso se ne usciva con delle frasi che ti strappavano un sorriso istantaneo e che, a pensarci, ti fanno ridere ancora oggi.
Come nelle migliori tradizioni meridionali la vita a casa dei nonni ruotava intorno alla cucina, qui tutto iniziava e si concludeva. Nella vecchiaia mio nonno Carmelo si era prefissato un unico obiettivo: rompere il cazzo a mia nonna. Unico interesse che riusciva a distoglierlo dalla pesca, dai telegiornali e dai film di Stanlio e Onlio. Ma in realtà era punzecchiandola che le dimostrava il suo affetto non essendo tipo da smancerie. Durante le mie innumerevoli merende consumate davanti un piatto di pani cunsatu spesso compariva da dietro la tenda che separava la cucina dal soggiorno. Squadrava la situazione, immobile, in silenzio, come in un blitz, e poi dava il via allo show con un cenno dell’occhio. Attratta la mia attenzione mi strizzava l’occhio per dirmi “sta a vedere come faccio incazzare tua nonna”, ovvero come ti scombussolo la quiete. E iniziava a lamentarsi dicendole “taliàtila ch’è bedda, sempri chi pistìa. Si licca e spairduna!” (i.e: guardatela, mangia in continuazione, golosa e spendacciona) e da lì partiva un alterco di pochi minuti da cui mio nonno usciva compiaciuto per aver colto nel segno con quelle quattro parole chiave che sapevano ferirla davanti i miei occhi che, buttati al cielo, dicevano “siamo alle solite”. E tutto questo solo perché lui era riuscito a coglierla in flagrante mentre apriva un stipetto. Una volta trovò mia sorella sui libri e le chiese cosa stesse facendo. Lei gli rispose che stava studiando e lui replicò: “Anch’io staju sturiannu, ma come haju a fare diventare folle to’ nonna”. Ma è nei pomeriggi più irrequieti che dava sfogo alla sua scattusarìa (soperchieria) molesta mettendo su La banda. Convocava me e mia sorella in disparte e reperite un po’ di pentole e qualche stoviglia sotto gli occhi sconfortati di mia nonna - addiu, ruvinati semu – ci conduceva in giro per la casa percuotendo i coperchi e cantando a squarcia gola. Mio nonno nella vecchiaia aveva preso una decisione tanto ferrea quanto impopolare, aveva deciso di non mettere la dentiera. Si era arreso al declino fisico cercando di aggirare il problema della masticazione con uno stratagemma: voleva che la pasta cuocesse 5 minuti in più che per gli altri commensali. Amava gli spaghetti al sugo e voleva mangiarli nell’insalatiera. Inutile raccontare la gittata di quei risucchi che ogni domenica ci costringevano ad ammassarci in maniera angusta e convulsa agli antipodi del tavolo. E sempre in cucina avveniva la consueta partita a pernacchio con sua moglie o il malcapitato di turno. Lui era l’avversario più incallito nonostante non fosse dei più strategici. Finiva sempre a carte all’aria se non vinceva lui e avrebbe imbrogliato il diavolo pur di non essere sconfitto. Si narra che proprio durante una di queste partite sparò una di quelle battute destinata a rifulgere negli annali delle minchiate di casa mia. Durante una mano di pernacchio sollevò una natica per consentire uno sfiato e in confidenza con il deretano lo rassicurò così: “Mariiia e comu fai, e ora ti portu a cacari.”
Mio nonno era uno che non rompeva i coglioni agli estranei perché non li voleva rotti. Se ti avvicinavi per sussurrargli qualcosa all’orecchio ti ammoniva con diffidenza “Chi bboi? ‘u riavolo t’alliscia quannu voli l’anima!...” Io lo ammiravo perché se ne fregava delle etichette andando dritto per la sua strada, consapevole di non far male a nessuno. Una coppola, la giacca della tuta, un pantalone cinto alla buona e un paio di mocassini di cotone blu e tutto il resto era superfluo nonostante una buona pensione da appuntato. Se qualcuno gli faceva un torto scompariva per settimane, partiva alla volta del terreno di San Vito a dispetto dell’inverno. Mentre restava a Trapani d’estate. Sempre controcorrente (da chi potevo prendere?). Poiché la sua Renault 19 stazionava immacolata nel garage, ferma ad ingolfarsi in qualità di giaciglio pomeridiano, armava il vespino rosso con le immancabili parature da pesca. Così prendeva e partiva per la sua avventura di 40 km. Una persona normale impiegava 45 minuti, lui impiegava un’ora e mezza. Se la godeva sotto quegli occhiali da sole anni 70 di mia madre che aveva riesumato non so dove. Gli avevo detto: “Nonno, potresti almeno togliere quello strato di polvere che ti annebbia la vista!” Mi rispose: “Ma quannu mai, accussì pozzu taliàri senza essiri taliatu”. A San Vito aveva riportato i suoi maggiori successi di pesca. Sebbene la sera io e mio cugino andassimo a sfotterlo per scroccargli una fetta di pizza e lui fingesse di riepilogare le spese per trattenerci nell’attesa che qualche pesce abboccasse, al molo godeva di una fama che ci rese orgogliosi di essere suoi nipoti. Un tale ci disse: “’U Zù Caimmelo, cà è ‘ u mastro.” Aveva una barca in legno in cui metteva i suoi trofei (le anguille), un secchio paglierino scolorito per le cicale di mare, una bacinella blu per le vongole, un barattolo di vecchie guarnizioni idrauliche per la trimulina. Quando lo vedevamo partire con gli stivaloni ascellari in plastica verde e il pentolone con il fondo di vetro ci fregavamo le mani pregustando già una bella padellata di vongole al sugo. Peccato che pochi giorni dopo arrivava puntualmente la disdetta. Come sempre aveva venduto tutto in pescheria.
Mio nonno ai rapporti interpersonali preferiva quello con gli animali: cani, pesci, uccelli. Peccato che nessuno gli avesse mai spiegato che al canarino la fetta di salame non si dà, a meno che poi nel beverino non metti un Alka Seltzer. Le ultime immagini che ho impresse nella memoria lo ritraggono su uno di quegli sgabelli in legno che amava costruire, appoggiato alla muro di casa, sul marciapiede, all’ombra di quell’afa pomeridiana che sfiacca anche i più duri. Lo vedo lì, pensieroso che guarda i piccioni beccare le sue molliche.
Mio nonno se n’è andato all’improvviso, quando sembrava che nessuno lo avrebbe mai abbattuto. Fu un fulmine a ciel sereno perché nel suo essere personaggio a volte scomodo e imprevedibile faceva parlare di sé e ci riesce tutt’ora. Probabilmente anche lui è stato colto di sorpresa perché durante i litigi con mia nonna, consapevole del proprio caratteraccio, sosteneva che sarebbe morto dopo di lei perché "erba tinta ‘un more mai". Nel letto dell’ospedale in cui era stato ricoverato per qualche accertamento, come ultimo gesto di commiato, allungò la mano verso mia nonna per regalarle quella carezza che le aveva sempre negato perché non vi era avvezzo. Mia nonna gli rispose: “Dovrebbe essere sempre così.” Quando mi dissero che era morto provai uno strano senso di nervosismo, era dispiacere e non pensavo che ne avrei provato così tanto per una persona che nel bene o nel male aveva colorito le nostre giornate in maniera intermittente.
Di lui ci ricordiamo sempre una frase che soleva ripetermi: “Ma chi ni facisti di tutti ‘i lignati chi ti retti to’ patri?!?” Non si capacitava di come riuscissi ad essere così impertinente nonostante l’educazione ferrea che mio padre cercasse di impartirmi. Lui invece si era permesso di darmi solo uno schiaffo. Quando, a dir suo, stavo per fargli cadere un’àncora addosso. Davanti gli occhi attoniti di mia madre e mia nonna non sapeva come scusarsi per quanto accaduto. Un unico schiaffo ma indelebile.
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