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Pizia – Rouge et rien

Da Foscasensi @foscasensi

Sono uno di quelli che crede che la bellezza non salva il mondo. La bellezza non dà il pane o rende migliore il vino. Non costruisce la storia, non converte i popoli. Non la si può teorizzare perché se così fosse nel mondo ci sarebbe almeno una cosa bella – e imperitura. E invece esistono moltissime cose. Alcune di esse sono ricorrenti, come la luce, che però viene celebrata nella sua natura magica più che fisica, e le impennate del pensiero, che pure nasce nell’umido e nell’oscurità della materia cerebrale e a queste qualità ritorna sotto le spinte della nostalgia o gli accessi malinconici, come se si trattasse di un amore pervertito a qualcos’altro.

Pizia – Rouge et rien

Jeu d’échecs avec Marcel Duchamp
(Partita a scacchi con Marcel Duchamp)
di Jean-Marie Drot, 1963-1964

Del resto ci sono anche i fenomeni culturali; persone nei musei d’America e d’Europa sedute al cospetto di opere d’arte consacrate al mercato mondiale; queste opere sono oggetti che raffigurano teschi incrostati di brillanti, animali uccisi in pose di terrore, lentissimamente decomposti in teche di resina, oppure le gesta pornografiche di uomini ritratti allacciati sotto i faretti delle sale d’arte contemporanea. O altre opere ancora più concettuali e incomprensibili, come cumuli laccati, gonadi di resina o altro materiale prodotto in serie che hanno qualcosa a che vedere coi tumori e le masturbazioni, che colpiscono e si ritirano – come se non ci fosse nulla da dire a parte il suono dell’impianto di ventilazione e il respiro, un po’ grasso e un po’ marrone, del custode che controlla le uscite.

Frequentando le sale spaziose, crollando sui divanetti orientali, perdendomi fra i soffitti e le linee di queste cattedrali dell’arte ho trovato molti uomini e molte donne da studiare. Molte

creature indecise fra l’essere uomo e l’essere donna, molti adolescenti, molti vecchi dagli abiti variopinti e corpi disfatti in maniera ostentata. Ma sopra ogni cosa ho trovato donne giovani e intatte, ingenuamente comprese nella propria avvenenza, i seni la curva delle spalle il disegno del volto ancora squisiti, la peluria dorata così prossima agli oggetti d’arte disperati e taglienti. Si aggirano nelle sale con passo meditativo e lo stivaletto proprio giusto, o il vestito increspato sul fianco, o il petto denudato da ogni biancheria sotto le maglie di cotone o quei tessuti che fanno odorare la pelle di fatica e di sporcizia, e i capelli e i colli accesi dai faretti, e un solco di sudore al centro della schiena – piene d’ansia al pensiero di dire o non poter dire: io ho capito che, io penso proprio che qui si sia arrivati a.

Una di esse mi colpì e le parlai.

“Nella vita faccio la performer”, disse, e continuò ad esaminare una stele di marmo cipollino, lucidata in modo industriale. Una fessura larga non più di due centimetri spaccava la colonna a metà. All’interno di essa, mi parve come nelle più trite metafore, era stata fatta colare una pasta d’oro. Notai che la donna aveva polpacci sottili, la curva della schiena e la statura suggerivano un corpo elastico che mi eccitò. Naturalmente non sapevo cosa fosse una performer.

“Deve trattarsi di un lavoro duro, il suo”, risposi con leggerezza.

“Alquanto, sì.”
“Posso sapere il suo nome, signorina?” “Può chiamarmi Pizia.”

Iniziò una frequentazione. La donna alloggiava in una strada dell’estrema periferia. Un appartamento per studenti in un caseggiato dall’intonaco granuloso. Appresi che non aveva più di trent’anni e condivideva la stanza con una cameriera

nigeriana di nome Martine. Nei giorni di corta ci concedevamo lunghissime scopate a tre. Dopo, Pizia accendeva una sigaretta e guardava alla finestra. Tirava fuori lunghissime storie sui flussi energetici e il karma e la filosofia tedesca. Quando raccoglieva i capelli dietro la nuca, ancora nuda, i seni sembravano piccole masse perlacee. Talvolta un lapillo di cenere volava sulle natiche di Martine, che giaceva fra noi come una grossa bambina scura. Poi Pizia andava a preparare il caffè. In quei momenti era oltremodo magra e nervosa. I fianchi sui quali prima mi ero agitato con passione avevano l’aspetto di ali scarne. Le scapole erano pulite e piatte, e una lunga fila di noccioli d’osso ritmava la pelle lungo la spina dorsale. Dopo le orge Pizia era ispirata. Si rifaceva soprattutto a Nietzsche e Schopenhauer, e altri ricordi dell’università. Oppure parlava dei propri progetti. Il tale museo o la talaltra scuola avevano indetto una borsa di studio, era uscito il bando per un premio dedicato ai giovani artisti, un’associazione culturale aveva messo a disposizione dei soldi per realizzare una performance.

“Cara, è meraviglioso. Di cosa si tratta di preciso?”

“Oh, non puoi nemmeno immaginarti”, rispondeva lei, come una liceale, e scappava in un’altra stanza. Di solito in quei casi Martine si levava e per una specie di istinto professionale andava a servire il caffè nelle tazze. Nella casa c’era rumore di qualcuno che cerca qualcosa.

“Non puoi proprio immaginare – urlava Pizia dall’altra stanza – credo che sia uno dei miei lavori migliori. Decisamente uno dei più significativi.” E tornava con un carboncino fra le labbra.

“Ecco”. Mi metteva in grembo una tavola macchiata di rosso e di nero. Sulla tavola era disegnata una figura china su uno spazio bianco e sopra di essa delle dita nervose avevano sparso una massa di carminio e magenta sulla tela, in lunghi vortici impacciati. In calce c’era una scritta di sapore meno che

duchampiano: rouge et rien. Dal volto di Pizia era scomparsa ogni traccia della propria età. Adesso mi guardava come un bambino ansioso di conoscere la misura del proprio talento.

“Cosa ne pensi?”
Devo ammettere che ero sconcertato. Le linee del pupazzo, il vapore rosso che prendeva quasi tutto lo spazio della tela e la scritta in calce erano qualcosa che lasciava spiazzati. Avrebbe potuto anche trattarsi di un’opera con una sua logica e un certo dinamismo. Purtroppo però era stata sviluppata senza alcun rispetto dei criteri estetici più elementari e in definitiva molto peggio di quello che avrebbe potuto fare un bambino di dieci anni. Quel piccolo uomo dalla testa ridicolmente oblunga cadeva sulla tela come un fantoccio di carbone. Il rosso della nuvola (uno spruzzo di sangue? un’alba d’angoscia?) era un grumo incapace di parlare. Per fortuna Pizia era impaziente di spiegare la sua opera

“Vedi, questo è il progetto della prossima performance – col carboncino indicò il punto della tela nel quale era disegnato il pupazzo. Le labbra le si erano illividite – Un uomo è al centro di uno spazio immenso, diciamo qualcosa di mistico, come potrebbe essere un anfiteatro naturale. Con molta lentezza dovrà far partire una macchina del fumo. La macchina del fumo produrrà una nuvola, meglio se rossa. Anzi, non so ancora come farò, ma dovrò ottenere una nuvola rossa. Naturalmente dovrà esserci luce solare in tralice e uno specchio sistemato fuori campo.”

“A cosa serve lo specchio, cara?”, chiesi.

“Lo specchio è il punto centrale del progetto. Catturerà la luce del sole e bagnerà la nuvola. La nuvola si dissolverà nel tramonto come un incendio. Un incendio fantasma.” Ora che si era spiegata Pizia mi guardava con una certa aspettativa. Aveva l’aria di un animale parlante.

“Ma così non resterà traccia del tuo lavoro!”, dissi. Si aspettava questa domanda. Le spalle nude fremettero per una

specie di impazienza. Notai che il petto le si era fatto acuminato e me ne commossi.

“Non capisci, è proprio questo il punto. Tutto quello che succede nell’arte è una traccia in cui nulla parla solo per se stesso. Quello che noi abbiamo da offrire è il contatto di un momento senza che si sappia con cosa. Per quel che mi riguarda a quel punto l’opera d’arte ha finito il suo compito. Quel che resta: tempera, tela, marmo, lo si può anche buttare.”

“Allora non potresti fare la musicista? – dissi ridendo – lì non ci sono scarti”.

Pizia prese sul serio la mia battuta.
“A parte che non ho orecchio musicale, ma poi

preferisco lavorare con la luce, che è la radice della vita biologica.” Allora indicai con un gesto ampio la tela che ancora mi premeva sul pene.

“Il fatto che qui tu non abbia disegnato lo specchio…” “Sì, caro, vuol dire che l’uomo, per nostra fortuna, non ha alcuna possibilità di scatenare l’incendio di propria volontà.”

A quel punto Pizia si gettò fra le mie braccia e Martine entrò con tre tazze di caffè. Io le accolsi entrambe e le strinsi al petto come figlie mai amate abbastanza.


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