Bei discorsi, belli, probabilmente, perché trasognanti, ma belli davvero perché scaturiti da 18 lirici minuti in cui un sacchetto di plastica, giusto uno di quelli che danno al supermercato, viene ripreso nella sua odissea fatta di momenti felici (l’apoteosi carnale della caviglia gonfia) a cui si contrappongono per una completezza dannatamente umana momenti nostalgici, laddove la nostalgia diventa il lancinante dolore del ritorno. Ma il mondo è grande e va esplorato, vissuto, affrontato nelle paure più superficiali (i mostri: cani, uccelli, cavalli), apprezzato nell’imprevedibilità della crasi (la scena: il sacchetto che sfiora nel cielo azzurro un suo simile), e percorso, per giungere alla meta agognata, il traguardo della corsa: una laurea, un matrimonio, un figlio. Per il nostro fluttuante protagonista il Pacific Trash Vortex, paradiso in Terra dei rifiuti di plastica. Eppure non è la felicità. Il vuoto non si riempie, la memoria ancora lede.
Film sul viaggio inteso come percorso, opera che candidamente suggerisce i vuoti dell’esistenza, pellicola sull’intimo carburante della vita: il ricordo (my maker) che si trasforma in una forma di religiosità priva di dogmi ed inutili preghiere.
Una fede vacillante come tutte le confessioni:
La mia creatrice esiste davvero o sono io ad averla creata nella mia mente?
Ma comunque (amaramente) fiduciosa:
Spero di incontrarla di nuovo, e se così sarà le dirò una sola cosa: vorrei che tu mi avessi creato, così potrei morire.
E porre fine al viaggio.