Magazine Diario personale
L'altra sera ero a teatro, a vedere l'Arlecchino Servitore di Due Padroni, di Sthreler, allo Sthreler, con Ferruccio Soleri (classe 1929 e giunto a più di 20.000 rappresentazioni nella parte del variopinto protagonista). Durata: 3h con 2 intervalli. Un macigno di commedia, insomma, dalla prospettiva della quarta fila, pure se un po' laterale. Tutto intorno, un po' a macchia di leopardo, una scolaresca: una ventina di minorenni, probabilmente II o III liceo. Paperelle impazzite e starnazzanti, scortati da un cigno bianco: una bella professoressa con i pantaloni a vita alta, inflessibile e disperata.Calano le luci, entrano gli attori e io mi preparo al peggio.
Solitamente avere ragione rende felici. Talvolta, tuttavia, non vediamo l'ora di accorgerci che avevamo torto.Come Amelie Poulain al cinema, mi volto a guardare le facce di questi ragazzi ragazzi. Sono tutti attentissimi, come stregati dalla rappresentazione (magistrale, ovvio!), gli occhi accesi dal riflesso delle luci di scena. Ridono, sorridono e si aggiornano sottovoce a vicenda quando, complice la recitazione in veneziano, si perdono piccoli spezzoni della trama. Mi trovo persino ad odiare la rigidità della maschera di sala, che li richiama al minimo bisbiglio.
Entro in una macchina del tempo e ripenso a quella prima volta al Piccolo, a vedere l'Arlecchino. Saranno stati dieci anni fa e il teatro era un gioco a fingere di essere grandi, nelle sedie rosse di una platea.
E mi ritrovo, oggi come allora, un po' paperella. Tre giorni fa era il compleanno del mio professore di italiano. Senza di lui, probabilmente, Arlecchino sarebbe rimasto una maschera di carnevale, colorata e biascicante. E' quella sera che ho pensato di scrivere queste righe. Gli impegni di questi giorni hanno voluto che fossero pronte solo ora.
Auguri, che sia un buon anno da questa parte del sipario.
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