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Playjuncker

Creato il 21 gennaio 2016 da Albertocapece

 Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mentre lo sport, tradizionale teatro di competizioni cavalleresche, di nobili gare che mettevano in campo i valori dell’onore e del coraggio, di generoso agonismo, che si sa l’importante è partecipare, sono interessate da scontri verbali con accuse  di appartenenza a famiglie di ortaggi effeminati, trasgressivi, perciò riprovevoli laddove   vigore e prestanza devono essere confermate da gergo triviale e icastico, da dimostrazione di  maschia e nerboruta robustezza e probabilmente da pervicaci frequentazioni di modelle e veline. Mentre i difensori della famiglia ci mettono in guardia dal velenoso contagio di inclinazioni innaturali, di comportamenti “anticonformisti” perciò condannabili a marginalità punitiva, da vincoli sgraditi a codici morali confessionali, perché anche l’amore  come tutto deve essere soggetto alle leggi implacabili della disuguaglianza e alle gerarchie inviolabili delle convenzioni, Juncker,  “statista” tirato su a bicchierini in una nazione che  non so a voi, ma a me fa venire in mente più che un paese, il palcoscenico ideale per vezzose operette, ci rassicura invece sull’indole e le predisposizioni dei leader europei, ribadendo che tra lui e Renzi sono corse parole genuine, termini sanguigni, segno inequivocabile di maschia attitudine al comando e della generosa qualità di una rispettosa amicizia virile, di quelle viste a Casablanca quando echi di guerra suscitavano fratellanza e confidenza.

A dirla tutta poche figure richiamano potenza maschia, supremazia sessuale, prestazioni passionali e esuberanze incontenibili, più di questi ometti grigi, indistinguibili, scialbi, malgrado le leggende sulle loro performance di impenitenti adulteri, sulle loro frequentazioni scollacciate, da Hollande in casco e motorino come un adolescente brufoloso, a Berlusconi, iniziatore di questo filone  di narrazione di leader goderecci, tra statuine di Priapo, cene eleganti, stanchezze mattutine esibite come medaglie, travestimenti e alcove ministeriali, che anche in quel caso, meglio puttanieri che froci.

Anzi ormai le icone virili più accreditate sembrano essere donne, modellate su arcaici modelli maschili caduto in desuetudine presso i possessori dell’attributo un tempo oggetto di invidia: tenaci, sfrontate, volitive, sprezzanti, anaffettive salvo – pare – nei confronti di babbi, ormai bisognosi di protezione, cattive e predatrici, fatali e rapinose o crudeli e ferine, dalla Merkel alla Lagarde, da Boschi a Fornero e la casistica è ricca.

E ci sta tutto, perché la virilità, sia interpretata da signore più o meno avvenenti o rappresentata da uomini più o meno atletici, nerboruti, palestrati è ormai esercitata unicamente con la sopraffazione. In politica violentando diritti, costituzione, libertà di espressione, di attitudine, di professione religiosa, di democrazia, nel contesto mondiale con il ricorso “inevitabile” alla guerra, in economia con l’esaltazione dello sfruttamento e la cancellazione arbitraria di garanzie e conquiste. Come d’altra parte succede nella coppia, in casa, nei posti di lavoro dove frustrazione, impotenza, inadeguatezza si convertono in violenza, assumono la forma della vessazione, si tramutano in angherie e oltraggio,  come “esercizio riparatore”, come “eruzione dell’odio contrapposto”.

È complicato spiegare che cosa stia resuscitando il mito della virilità, un tempo monopolio della cultura di destra, poi allegramente sdoganato. Che cosa abbia rigenerato la necessità di ristabilire, in contesti che fino a poco tempo fa avrebbero avuto pudore per certe ostentazioni e esibizionismi, quella  superiorità, dando luogo a una rivendicazione del ”machismo”, del potere del sesso forte elevato a strumento di controllo politico e di autoritarismo. Che cosa stia suscitando questa reazione esibita come una virtuosa riappropriazione di identità dopo l’era della cosiddetta “intimidazione” dell’uomo  prodotta dalle lotte  di rivendicazione di genere, dalla rivoluzione sessuale che hanno messo la donna al centro di decisioni dalle quali un tempo era esclusa (accoppiamento, matrimonio, maternità, negazione della maternità attraverso l’aborto e l’uso di anticoncezionali), come un processo di castrazione sociale. Che cosa spinga gli stessi che hanno condannato i fatti di Colonia, come segnale inquietante del possibile contagio, anzi degli effetti tossici di un credo che legittima impulsi irrazionali e fanatismo, nel quale sarebbe connaturato violenza, barbarie,  misoginia feroce e   imperativi refrattari a logica, umanità e democrazia, a tacere su certe esternazioni, così come considerano inevitabili discriminazione sul lavoro e nella società, disparità di trattamento economico, condanna a svolgere mansioni gregarie, restaurazione di una cultura della famiglia e dell’assetto sociale fondati sulla separazione “naturale” dei ruoli, sulla inesorabilità di funzioni contraddistinte da subalternità e da dipendenza, rese più ineludibili per via di politiche di austerità e di smantellamento del welfare e della democrazia.

È perfino banale ricordare come il mito della superiorità  del maschio sia stata messa in discussione con la rivoluzione industriale e la conseguente meccanizzazione del lavoro di fine Ottocento,  quando lavorare col corpo, diventò sempre più inutile  e la supremazia prese forme diverse rispetto a quelle della forza fisica.

Per questo non è però azzardato pensare che ora che un sistema mondiale che ha svalutato il lavoro e le potenzialità di affrancamento, emancipazione e riscatto che dispiega, che ha avvilito cittadinanza, che ha stabilito l’egemonia di un ceto esclusivo e ristretto che riconferma il suo primato attraverso transazioni immateriali e esercita la sua potenza con un’avidità inestinguibile e con la sopraffazione armata, i suoi esecutori, i suoi “dipendenti”, vivano una “perdita”, soffrano una inferiorità di censo, potere decisionale, autorità, prestigio e dominio, tanto da cercare un risarcimento anche solo verbale in simboli arcaici, pescando nelle zavorre ormai patetiche, quelle del virilismo, di chi ce l’ha più lungo, del celodurismo. Non li odiassi, verrebbe da dire e adesso pover’uomo.  Ma mi viene da dire invece, poveri noi.


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