Imparai ad invocare un calcio di rigore inesistente e a piazzare una punizione sotto l'incrocio dei pali, alla destra del portiere, a ridere dell'espressione di terrore dipinta sul suo volto. Mi abituai ad alzare al cielo la coppa più prestigiosa, ad alimentare il ruggito della folla che mi circondava. Una volta mi beccai la malaria in Africa, ma ero un mercenario abituato a situazioni ben peggiori, non mi scomposi e portai a termine una missione che sembrava impossibile, vivendo di espedienti nella giungla. Riuscii a cavarmela persino nell'inferno di Stalingrado, cercando di decifrare gli insulti dei nazisti ai quali contendevo la città metro per metro, illudendomi che un'ideologia fosse migliore dell'altra.
Poi tutto finì come era cominciato, perché mi convinsi che anche al soldato più valoroso si allentano i riflessi, e che tutti i calciatori devono appendere i scarpini al chiodo, prima o poi. Così me ne tornai da dove ero venuto tanti anni prima, lo zaino pieno di ricordi e una fottuta paura di non farcela a barattare la strada del successo con il viale del tramonto. Eppure, ancora una volta mi impegnai a fondo e in qualche modo sopravvissi al nemico più insidioso, il mio fantasioso passato.
Per un po' andò bene. Poi un giorno, mentre cercavo di ammazzare la noia senza lo straccio di un controller da tormentare, decisi che sarei nuovamente saltato sul primo treno, evitando di pensare a chi mi lasciavo dietro. Così mi ritrovai ancora una volta davanti alla grande stazione, magari arrugginito, pronto però a lanciarmi nella mischia della finzione, per poi emergere vincitore di niente. Ma no, non entrai. Mi limitai a fissare quel monolito nero per degli istanti che volli dilatare a dismisura, mentre soppesavo l'eventualità di restare ragazzo per sempre.