František Hrubín
Frantisek Hrubin
Poeta, prosatore, drammaturgo e traduttore, considerato un classico della letteratura ceca del ‘900, nacque a Praga il 17 settembre 1910 e morì a České Budějovice il 1 marzo 1971. Dopo la maturità, conseguita nel 1932, si iscrisse alla Facoltà di filosofia e pedagogia dell’Università di Carlo a Praga, ma dopo due anni abbandonò gli studi. Dal 1935 al 1945 lavorò presso la Biblioteca Comunale di Praga e per un breve periodo al Ministero dell’Informazione. Nel 1939 si sposò e dal matrimonio nacquero la figlia Jitka e il figlio Vítek. Nel 1946 si dedicò interamente alla creazione letteraria.
Debuttò come poeta nel 1933 con la raccolta “Zpíváno z dálky” (Cantato da lontano), seguita da “Krásná po chudobě” (Bella dopo la povertà, 1935) e “Země po polednách” (La terra dopo il meriggio, 1937). Nella sua “Storia della poesia ceca contemporanea”, A. M. Ripellino definisce Hrubín “il poeta del paesaggio” e lo introduce così: “Sin dai primi volumi egli si rivelò lirico di inebriante dolcezza vocale e di quieta estasi, intento a fermare nel verso, come in un delicato pastello, il paesaggio della regione che siede in grembo al fiume Sázava, dove si svolse la sua infanzia. Un vibratile contorno di luci inquadra le pitture verbali di Hrubín, tramate con fili di fragile sensualismo…Hrubín ritrae la natura, rifugio e nido di poveri, attraverso i filtri d’una bellezza musicale congiunta col pudore della povertà. Poveri e vagabondi sono i personaggi di questa poesia che trova talvolta accenti di gratitudine a Dio per tutti i doni del creato. Il contatto con la natura, specchio di vita incorrotta, equivale per Hrubín, come per Zahradníček, a un ritorno alle sorgenti della tradizione e della stirpe…”
Nelle opere seguenti: “Včeli plást” (Il favo delle api, 1940), “Země sudička” (La Terra-Parca, 1941), “Cikády “ (Cicale, 1943), “Mávnutí křídel” (Sventolio di ali, 1944), “create sotto l’influsso di tragici eventi – scrive ancora Ripellino – il paesaggio non è più soltanto un accordo di impressioni foniche e di impasti di colori, ma una realtà mistica che suggerisce al poeta un senso di vita ininterrotta dalla culla alla tomba e di comunione patriarcale tra vivi e morti…” La guerra e il periodo dell’occupazione tedesca gli ispirarono i versi più sofferti: “Chleb s ocelí” (Pane e acciaio, 1945) e “Jobova noc” (La notte di Giobbe, 1945). Tra le altre sue raccolte poetiche ricordiamo in particolare: “Hiroshima” (1948) – un’accorata invocazione contro la guerra, “Zpěv lásky k života” (Canto d’amore per la vita, 1955), “Můj zpěv” (Il mio canto, 1956) – un ritorno alla sua ispirazione intimistica, una visione poetica della natura, piena di meditazione lirica, “Proměna” (Trasformazioni, 1957) – un canto di speranza per un nuovo ordine e una nuova armonia tra l’uomo e la natura, “Romance pro křídlovku” (Romanza per flicorno, 1962) – una delle sue opere migliori – una bella storia d’amore autobiografica per una ragazza morta prematuramente negli anni ’30.
Nella seconda metà degli anni ’40 Hrubín cominciò a scrivere delicate poesie per bambini, illustrate da Jíří Trnka, e fu il fondatore del famoso giornaletto per l’infanzia “Mateřídouška” (Il timo). Dei suoi drammi lirici che segnarono l’inizio di una nuova stagione del teatro ceco, vanno ricordati soprattutto: “Srpnová neděle” (Una domenica d’agosto, 1958), “Křišt’álová noc” (Notte di cristallo, 1961) e “Kráska a zvíře” (La bella e la bestia), rappresentato postumo nel 1972.
Dal 1948 al 1956 le autorità comuniste gli permisero di pubblicare soltanto testi per bambini e traduzioni. Nel 1956, durante il II Congresso degli scrittori cecoslovacchi, Hrubín e il poeta Jaroslav Seifert – futuro premio Nobel per la letteratura (1984) – sfidarono apertamente il regime, chiedendo non solo la riabilitazione di coloro che erano stati imprigionati, ma anche il riconoscimento del diritto degli scrittori di essere la “coscienza della nazione”, cioè di potere intervenire pubblicamente, qualora fossero minacciati i diritti umani e la libertà dei cittadini. Il partito reagì furiosamente, vedendo in ciò una minaccia per il suo “ruolo guida”, e ottenne che l’Associazione degli scrittori ritirasse il proprio punto di vista. Al termine della burrascosa seduta lo scrittore Josef Hiršal e il poeta Jíří Wolker accompagnarono Hrubín a casa. Quando la moglie aprì la porta, esclamarono insieme: “Avete in casa un leone, signora Hrubín!”
Ma per il poeta iniziò l’inferno. Il ministro della cultura, lo stalinista e fanatico del realismo socialista Václav Kopecký definì traditori Seifert, Hrubín e alcuni altri malcontenti. “Spesso di notte qualcuno telefonava e ci insultava. Papà soffriva molto. Trascorse un anno di tormenti, un anno di insonnia” – ricorda la figlia del poeta Jitka. Dopo una lunga estenuante pressione psicologica, Hrubín rilasciò una breve dichiarazione. Benché ancora oggi ciò venga spiegato in vari modi, il partito allora diede una categorica e univoca interpretazione: “il poeta si era cosparso il capo di cenere”. Il presidente Antonín Zápotocký ringraziò Hrubín per le sue “parole virili” . Ecco cosa doveva fare in quel tempo un poeta coraggioso, se voleva dormire e sopravvivere!
Poesie di František Hrubín tradotte da Paolo Statuti
L’ora degli innamorati
Ti avvolgevi sul dito la paglia,
là sul dito, dove sognavi un anello d’oro.
Io conversavo ancora col sole
e tu già impallidivi nella luna.
Dietro di noi d’un tratto cominciò a stormire.
E posasti la testa dall’ombra
sulle sue foglie.
Capello dopo capello da essa ti prendeva.
Soltanto per essa l’ardente ortica,
la gelosia della terra, nell’erba celata,
con una gemma bruciante
ti si attaccò a un polpaccio.
Gridasti
e la luna spaurita saltò via.
La terra si mise tra di voi.
E lentamente si girò su un fianco,
finché – finché ci coprì entrambi
di erba e di foglie. Smarriti
come noi quella notte erano
migliaia. Un grande silenzio di pesce
sotto le squame del sussurro scorreva là
con le mute labbra della luna.
E ci sembrava che con il cuore
già toccassimo il nostro fondo.
Ma intanto in noi si apriva
una nuova profondità.
Notte di capodanno
La morte:
Ti porto il sonno, lungo, profondissimo.
Attorno a te in punta di piedi
passerebbero le guerre, poi anni felici
danzando spargerebbero solo la tua polvere.
Il poeta:
Non mi incanterai! Io non voglio perdere
neanche uno di questi minuti. So
che ognuno di essi alzerò di una piuma
e inoltre profondo, profondo in me stesso porrò.
Apro la finestra fino a mezzanotte – tutta
la piazza sotto la neve.
Tutto dorme, gli amici e i nemici.
Pace, silenzio intorno – ed io battaglia in esso.
Che sia, figli miei, sempre così in futuro,
pace ovunque, nei secoli.
Soltanto una guerra: nelle notti solitarie
le lotte, le grandi lotte dell’uomo.
In queste lotte l’uomo si rafforza
con le vittorie e le sconfitte.
Se solo un istante cedessimo,
il tempo si chiuderebbe su di noi per sempre.
Canto d’amore per la vita
Un giorno vi lascerò, azzurre distese di acque,
voi, colli, lontano basso gradino verso i monti,
voi, notti di agosto, che chiamano gli amanti d’un tempo,
voi, tigli coi paramenti fruscianti, prati splendenti,
verbasco, al cui confronto impoverisce la fiamma dei ceri,
un giorno vi lascerò per sempre, non ci sarà più nulla.
Per me non ci sarà nulla, ma da sotto le nubi dell’estate
il sole stenderà la sua luce in una bella regione del mondo,
i flicorni nelle esequie fin nei sogni delle donzelle ancora
scuoteranno con un brivido l’estraneo cordoglio festivo,
le tirate dei grilli ancora risoneranno con gloria nell’erba,
che non saprà mai della mia testa delirante,
ancora i flicorni trarranno un giovane respiro dai polmoni,
di questo però per sempre per me non ci sarà nulla.
Tutto un giorno lascerò, o tristezza, o inebriante errare,
ma tutto il paese canta, che sempre vivrà dolcemente,
ancora due confonderanno la luna col sole,
a vicenda si toglieranno dagli occhi il luccichio delle stelle,
ancora gli ontani con la cresta agiteranno le sponde,
che corrono dietro il fiume, dove sognavo con tenerezza,
ancora i mari delle vie Lattee ribolliranno e di spuma
i sognatori tesseranno un nuovo sogno cosmico
e gli occhi degli osservatòri s’immergeranno più a fondo
nella notte immensa, ai maghi gli specchi distruggeranno,
ancora il viandante per le alture incontrerà le sue stelle,
ancora la luna come donna in un leggiadro torpore
da quella tremenda lontananza attirerà l’uomo a sé.
E se, o autunno, io lasciassi cento volte di più,
con la tua marmaglia di venti lacrimosi non voglio stare,
che tutto per me finisca, tutta l’ingiustizia, il dolore
che scavava nel cuore come larve, il maltempo nella corteccia,
che per me finisca la beata pena dell’amore,
ancora maggio fiorirà attraverso i veli delle api,
la terra dietro gli aratri si solleverà e si abbasserà
come ali, dalle schiavitù si accenderanno le rivolte
e il povero ai ricchi, a un’orda di pecore delle rocce,
contenderà la terra, alla quale tutto il sudore ha dato,
ancora la foresta, l’oceano si opporranno alle strade,
ancora il futuro risveglierà nell’uomo le vertigini,
nel mondo ancora un cerchio sempre più ampio
sarà occupato dalla voce umana, e che lanci da ogni lato
geli e tenebre la morte, eterna parca del mondo.
Prima ch’io abbandoni tutto, che mi trascini di nuovo
ciò di cui ho finora vissuto, la voce metallica delle gesta
e la gioia profonda per l’opera strappata alla morte,
l’inclinazione per l’uomo che spezza le catene,
e la passione con cui ho scritto questo fervido canto,
sempre di nuovo vincere il grave dolore per la morte,
che mi trascini di nuovo l’amore per la vita, per la terra,
questo amore, sanza il quale sarei muto come un sasso,
l’amore con cui contemplo le azzurre distese di acque
e i colli lontano basso gradino verso i monti,
e le notti di agosto, che chiamano gli amanti d’un tempo,
e i tigli coi paramenti fruscianti, i prati splendenti,
che io senta sempre più vicino, e tutto il genere umano,
rombare l’oceano del futuro, da esso che io respiri
profondamente tutta l’ampia libertà dei miei figli!
* * *
Il mio canto sia pur pieno di dubbi, pieno di tristezza,
che singhiozzi, oppure gioisca fervente,
tu sii una di quelle onde che si affrettano,
che trascinano verso il futuro.
E sempre, sempre sii pieno dell’uomo,
se imprigionato, oh sia il cuore l’umana prigione;
che qualunque cosa lo ferisca, lo spaventi pure,
purché non risuoni in un deserto!
La pioggia
Pioggia, perenne pioggia, pioggia senza nome,
come suicida estratto dal fiume,
triste pioggia senza fine, pioggia per Verlaine
dei rottami nello scarico si lava la polvere.
Cosa brilla in essi del bagliore solare
e quanti splendidi nomi danno loro i bambini.
Così nel ricordo risplenderà improvviso
il nostro giorno più comune e respinto.
Tempi di farfalle
Dove siete, voi tempi scherzosi di farfalle,
quando sognavo di avere le ali?
Oggi in me c’è un altro uomo
che non vuole volare soltanto qua e là.
O farfalle, rincorretevi come un tempo,
ma su di me non potete più contare.
Ingenuo, chi il ricordo oggi ridesta,
perduto, chi in esso un giorno s’è fermato.
Quante nuove tombe da allora,
quante nuove culle!
Ingenuo, chi sulle ali delle pièridi
vorrebbe volare un secolo intero.
Uomo ingenuo – davvero non ha la forza
di togliersi le ali smisurate, dalle cui membrane
la bufera e le stelle si versano di notte
sui deserti, foreste vergini e sull’oceano?
Uomo ingenuo – davvero non ha la volontà
di mettere le ali alla sua vita là,
dove i sogni gli hanno disteso il futuro,
là, dove non sarà più solo?
Pastello paradisiaco
Gli aghi di pino ti schiacciavo col palmo
sul corpo nudo. Odorava di bosco.
Io – fiume scorrevo attraverso te.
Cielo corporeo. Cielo senza cieli.
E uscivano gli animali
nelle notti ardenti dalla tua boscaglia
e bevevano di me…
E il cuore, una pietra sul mio fondo,
in stagni muscosi s’è commosso
per la tristezza umana –
che la mia superficie dalle stelle
non distingue gli occhi delle belve,
che attraverso te scorro
e non so da dove né dove.
Ma la mattina dal vivaio delle erbe
si alzava il sole ancora rorido.
Con le voci che hai donato ai tuoi uccelli,
e con la mutezza dei miei pesci
ci siamo stretti al suo fuoco.
Soltanto nella boscaglia
là in qualche luogo vicino al tuo cuore
gridavano le belve gelate dalle stelle.
E in quella estate il sole ha bruciato
la tua voce e con le voci nei rami
e la mutezza dei pesci col fiume ha bevuto
fino a quel cuore – pietra.
E un giorno su di esso cominciò a nevicare…
E il tocco del primo fiocco lo percorse
come il primo bacio – quella volta.
La città nel plenilunio
Dorme la città, città di gente regale,
anche nella sua più piccola pietra, cresciuta
così in alto, fino alle campane delle sue torri.
Nel silenzio, che al ritorno ha percorso il vecchio ponte,
dorme profondamente. Fa’, o Dio, che dorma,
come non ha dormito da tanto! Ma veglia sul
suo sonno, in cui la corrente l’ha portata
di molte notti più vicino, di quanto fosse prima.
Un antico canto senza labbra sale in alto
e la tua cattedrale profondamente immersa
con l’equipaggio dei re fende il mare della notte –
Aiutali, o Dio, nel loro viaggio!
La città dorme, le nostre case vegliano in essa
e da ogni parte corre da essa la terra.
Una notte con Verlaine
Una notte di febbraio senza fine
lo stridulo sferzare delle sirene.
Il respiro delle città si è spezzato.
Nelle cantine gruppi di lumache hanno portato
le loro case vuote.
Buio, soltanto buio.
Nella mia valigetta d’emergenza
alcune poesie di Verlaine.
Aspettavi che la luce spenta si spegnesse di nuovo.
Dopo quell’ululato il silenzio si condensò così,
che tra le pagine si levò
la candida luna di una poesia –
la candida luna,
sorella delle lune.
Col freddo chiarore asciugò la mia fronte,
attraversò la parete come fitta nebbia
e saliva le scale deserte,
finché il tremito d’un foglioso boschetto
rivestì la casa deserta.
Allora sgusciò dai tetti grinzosi:
la candida luna.
E il suo chiarore
si sparse nei boschi,
si sparse in noi.
Un rombo in lontananza. Mentre le case
finivano in polvere,
saliva e si alzava la volta
di una cattedrale d’usignolo
la candida luna di Verlaine,
in alto,
libera
e silenziosa –
pace nei secoli.
Romanza per flicorno (frammento)
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Questa notte/ 28 agosto 1930/
„Non mi morite!” mi dicesti questa mattina.
Io morire?
Siedo alla finestra e devo vegliare.
E tu dormi lontano in un luogo straniero
in un carro con le tendine.
Io morire?
Già oggi ho più giorni, in cui lieto fisserò
l’azzurro soleggiato e là mi frantumerò
in migliaia di canti,
ma già oggi
ho anche più notti, in cui alla gente
e a me stesso sarò di peso.
Già oggi
ho questa notte in più a Jílové.
Un giorno in agosto
tornerò da Praga, eviterò me stesso,
eviterò la statua di fango, che ho
scoperto nel profondo sotto l’orizzonte della gente,
e mi troverò sopra una tavola stridente.
Viscidi
minuti scavalcheranno sempre più alti
mucchietti di cicche e un’orda
di uomini stranieri si palperanno
coi tentacoli dei bicchierini.
A un tratto uno si alzerà
e mi prenderà per il bavero:
“Tu non mi riconosci?”
“No!”
“Io sono Viktor!”
Ci abbracceremo e usciremo
sulla piazza addormentata. “Andiamo là!” dirà
e mi condurrà a un carro con le tendine.
“Ssst! Che la vecchia…!” Avvierà il trattore
e sempre col dito sulle labbra, come se
nulla potesse svegliare la donna, se non
la voce umana, col capo mi farà cenno di salire.
Percorreremo una stretta stradina,
le casupole ficcheranno il naso nella nostra corsa,
ma ciò riguarderà noi!
Poi il fracasso della macchina strapperà dal fiume
i massi e li verserà sulle nostre teste,
ma esse saranno insensibili, anche se dentro
saremo lacerati,
poi abbatteremo
il trono di pino del silenzio, e l’odore del fieno
copriremo col puzzo dello scappamento,
le rocce,
che già da millenni si coprono di muschio,
si inselvatichiscono e dalle fratte della memoria
di un rozzo paese emergono e restano con noi
sul villaggio, per trangugiare da esso la vita.
Col branco di queste avide rocce a un tratto irrompiamo
sull’inerme Lešany.
E sulla piazza del villaggio
(Viktor sta già invecchiando, io sulla quarantina)
per un attimo saremo assordati dal silenzio.
E prenderemo a costruire di ombre e di capogiri
un carosello ubriaco, a ricavare dalla polvere
i passi di antichi ballerini e ognuno a modo suo
a cantare il finale d’una triste romanza –
(- seppellitemi nel cimitero di Netvořice,
giacciono e giaceranno là tutti noi,
non dico subito, non dico tra un mese,
non dico tra dieci, né tra venti anni -)
- fisseremo lo sguardo sulle lappole
nel fossato sotto la taverna, Viktor su di esse
punterà appieno le luci dei fari,
guarderemo, se di là non uscirà,
snella, con nobile andatura, scalza,
con gli occhi muscosi, con i seni, sulla cui
rotonda luce non doveva mai sorridere
una bocca infantile, e ognuno a modo suo
urleremo il finale d’una triste romanza –
(- il flicorno ai funerali mi suoni un assolo,
non dico subito, non dico tra un mese,
non dico tra dieci, nemmeno tra venti anni,
e poi gettatelo dietro di me nella tomba! -)
- e i nostri pensieri all’improvviso appassiranno
e si raggrinzeranno come foglie forate,
la notte invecchierà e alla fine del boschetto
l’orologio delle stelle ci indicherà l’alba,
la nebbia sul fiume si romperà nel bagliore
e farà emergere la mezzaluna coma da una fiaba,
come splendente conchiglia bicorne.
I grilli striduli cominceranno sui cembali
a suonare inaudite, stupende canzonacce
e Viktor griderà: “Devo tornare per lui!”
Salterà sul trattore: “Per il flicorno!”
Entrerà nella nebbia argentea, e la luna
anche con quei fragori e schianti lo inghiottirà
tutto per sempre e spanderà la luce e il silenzio
di antichi flicorni sulle mute colline..
Allora la mia anima con un fil di voce dirà:
“Fuggiamo, dalla luna viene un chiarore funesto,
non crederle, affrettiamoci, fuggiamola,
corriamo via, fuggiamo, se dobbiamo vivere!”
Questo dirà con terrore e delle sue ali
le lacere piume coglieranno la polvere della piazza,
il mio cuore, come se quasi non battesse,
sarà come le foglie raggrinzite e forate,
e mi darò alla fuga e vagherò nella pineta,
come vagavo anni fa verso sera
con questo terribile peso.
Per sempre avrò in più
il grave momento di una notte di agosto,
quando volevo che rivivesse la sua prefigurazione,
e quando Viktor puntò le luci dei fari
sulle lappole nel fossato sotto la taverna
e tu da lì, snella, con nobile
andatura, scalza, con gli occhi muscosi,
e con i seni, sulla cui rotonda luce mai
sorriderà una bocca infantile,
tu da lì
non uscisti.
Per sempre avrò in più quella notte,
in cui ti chiamavo dai vapori lunari
e la cenere sul cuore rovente voleva serbare la forma
di qualcosa che non c’è più, mentre tu vivevi
e vivi, non spettro, non ombra, che si leva dal feretro,
non fuoco fatuo, né bianco busto di sonnambula,
ma amore, che nel sangue delle vene e dei vasi
selvaggiamente pulsa.
Per sempre avrò in più
un uomo, dal cui fardello di amore e morte
e dal fardello della vita prorompe un canto.
agosto – novembre 1961
(C) by Paolo Statuti