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Poesia, il mercato delle vanità – l’altra faccia della patacca di Riccardo Raimondo

Creato il 25 settembre 2011 da Viadellebelledonne

Poesia, il mercato delle vanità – l’altra faccia della patacca di Riccardo Raimondo

Poesia, il mercato delle vanità – l’altra faccia della patacca

 «Si sa, la poesia oggi non  vende!» – ma è colpa dei lettori! Colpa della gente incolta che non capisce queste cose… «La poesia, la poesia non ha mercato!».

Eppure, nonostante queste affermazioni che sanno molto di apocalittici – per dirla con Umberto Eco – c’è tutto un cicaleccio editoriale che ruota intorno al mondo della poesia.

Fioriscono festival, si lanciano antologie generazionali, si animano riviste e programmi radio!

Ma come? Dicono che non c’è mercato!

 Viste dall’esterno le attività che ruotano intorno alla poesia in Italia appaiono come delle isole felici in un mare di pescecani. Isole protette con passione e tenacia dai pochi (troppi?!) editori e critici che si dedicano a questa dura (velleitaria?!) missione letteraria.

 La realtà, come sempre, è più complessa. È ben altra.

La partecipazione alla maggior parte dei festival è a titolo gratuito, moltissimi non pagano neanche il biglietto del viaggio. Molti editori – e parlo degli editori più affermati, quelli più in voga, non solo dei piccoli editori, o degli “indipendenti” (che poi, che significa indipendenti? Indipendenti da cosa?) – sono solo formati da una/due persone e un magazzino: della serie due cuori e una capanna.

Poesia, il mercato delle vanità – l’altra faccia della patacca di Riccardo Raimondo

Due persone e un magazzino che decidono le sorti di un poeta, la sua qualità, il suo peso.

E quasi tutti gli editori, persino quelli che millantano premi dai titoli più originali – della serie ti pubblichiamo, ti leggiamo, concorso pubblica con noi – alla fine chiedono una somma, un contributo agli autori. Contributo che può variare in base all’occasione, al rapporto d’amicizia, all’opinione che l’editore si fa di te.

Ad esempio, se sei un giovinetto aitante e figlio di papà, è molto probabile che l’editore ti chiederà qualche migliaia di euro. Oppure, se sei un disoccupato sensibile e commovente, e sei amico dell’editore, è moltissimo probabile che ti saranno chieste solo le spese di stampa.

Il criterio della selezione? È tutto un circo…

La poesia oggi è diventata il viagra dell’ego. È un mondo di miseria e frustrazione, è un mercato di vanità, dove vanno avanti solo strane figure umane, decisamente letterarie – su questo non si discute.

C’è la coccotte che conduce programmi radio con diecimila amici su facebook, oppure la sciantosa del duemila nonché performer, nonché pure un po’ mignotta, e c’è la ragazzina gentile che scrive sempre ti voglio bene quando civetta nella bacheca dei poeti e dei critici importanti, e poi c’è il cane da festival, quello che conosce tutti, sa tutto di tutto, viaggia sempre (a sue spese naturalmente!) e partecipa a tutti i festival in cui gli è possibile. E poi c’è “il critico che lavora all’università” – poco importa cosa faccia, se il bidello o il lavoratore a contratto; ciò che importa è se può permettersi o meno “il lusso” di organizzare anche un piccolo convegno/presentazione editoriale con il logo dell’Alma Mater Studiorum, et similia.

E poi c’è il vincitore di concorsi, quello che li vince tutti. E poi ancora, c’è il parente del poeta importante – lui sì che ha tante porte aperte, anche solo per simpatia.

Ma il personaggio più grottesco di tutti nel monto della poesia contemporanea è indubbiamente il promotore culturale, l’organizzatore di eventi che scrive poesie. Con questo personaggio si cade davvero in basso. Essì, perché questi personaggi, spesso e volentieri poeti molto mediocri, riescono a utilizzare il palcoscenico, l’evento culturale (!), il cultural event (!!), come grande merce di scambio.

Nella migliore delle ipotesi, collusi con qualche politicuccio locale o con qualche rotary club di turno, queste personalità riescono a pagare il viaggio, o a dare addirittura un gettone di presenza, a qualche poeta o critico importante – e magari ci esce fuori la recensioncina! Oppure, poi, ci esce un «ma lo sa che sto curando un’antologia?» a cui seguirà un velocissimo «Ah, sì? Allora posso inviarle i miei versi?» (!!!).

 A questi famigerati festival, per lo più messi su con piccoli sponsor, poi, diciamoci la verità, se si vendono venti libri è un successone!

Ma allora come si sostenta il mercato della poesia oggi?

Insomma, al di là di tutto il fumo e la promessa d’arrosto, chi paga le bollette?

Mi verrebbe da dire: i poveri genitori di tutta questa massa di pazzi! Le povere mamme e i poveri papà che campano di rendita o di pensione! E non mi discosto di troppo dalla realtà…

 Ma perché la gente non compra i libri di poesia, nonostante ci sia tanto movimento, tanto cicaleccio? Possiamo provare a dare delle risposte. Parziali, limitate al mio piccolo punto di vista. Ma diamole.

 Gli editori sono distratti: quando gli mandate qualcosa da leggere, non ci mettono tanta attenzione. Sono così impegnati a cercare di pagare le bollette, che non hanno il tempo di leggere e selezionare nuovi poeti – d’altronde perché dovrebbero? Hanno già una sfilza di pubblicazioni da terminare! E chi sono?

Per lo più amici, amici di amici e/o amici di amici critici letterari e/o di amici di critici letterari, professori universitari, o gente che paga moltissimo la sua pubblicazione.

Non c’è spazio per trovare il vero talento!

Tanto, poi, in tutto questo marasma, qualcuno che che scrivere versetti simpatici si trova, si trova sempre.

La frase «abbiamo il catalogo chiuso fino al duemilaquarantacinque!» – ormai è diventata un classico, un cult.

I critici poi, tutti concentrati a cercare un palcoscenico migliore, una copertina più patinata, sfruttano i loro rapporti editoriali proprio come farebbe il peggiore politico con un gioco di clientele: si scambiano favori, citano amici per poter essere citati, aggiungono alle loro antologie poeti per arruffianarsi l’editore o il parente che conta di turno, o il critico amico.

Insomma, nessuno sembra interessato a venderli, questi libri.

Ora, se un giovane poeta, magari un lavoratore o uno studente, che ha molto da fare, e che non ha tempo di tessere i rapporti, di passare ore su facebook ad arruffianarsi il personaggio di turno, o non ha il denaro per partecipare ai festival gratuitamente (anche quando è ben voluto!), come fa ad entrare nel mercato della poesia?

Bé, semplicemente, non ci entra! Appunto, perché non c’è Il Mercato! E potrà solo sperare che nessuno si dimentichi di lui!

Ma non c’è mercato perché i meccanismi editoriali sono tutti tesi a soddisfare dinamiche viziate, invece che a rivolgersi a un pubblico di lettori cosa che – per quanto molti, con la puzza sotto il naso, potranno considerare un degrado della letteratura –  sarebbe la caratteristica di un sistema sano.

Non solo sano, ma anche più realistico e meritocratico.

Perché nessuno editore si pone il problema? Perché nessun editore ha il coraggio di investire davvero in un’operazione sana e commerciale che riguardi la poesia, all’infuori di questa fanghiglia?

Se il metro di giudizio delle opere poetiche fosse il cuore della gente, e non le dinamiche clientelari, non solo gli editori potrebbero meglio sostentarsi, ma anche i critici – trovandosi ad avere a che fare con un mercato più florido, più disteso – avrebbero più tempo e risorse per dedicarsi agli argomenti e ai poeti che più amano, anche alle cose più di nicchia (!!!), invece di dover sottostare a una rete di rapporti culturali/clientelari che succhia loro tempo ed energie.

Non credete sia arrivato il momento di cambiare registro?

 

Riccardo Raimondo


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