Ritorna oggi al cinema, nelle sale aderenti all’iniziativa, Salò o le 120 Giornate di Sodoma, nel 40mo anniversario della morte del suo autore, Pier Paolo Pasolini. Restaurato dalla Cineteca di Bologna e CSC- Cineteca Nazionale, in collaborazione con Aurelio Grimaldi, presso il laboratorio L’immagine ritrovata, il film rientra nella terza stagione del progetto Il Cinema Ritrovato al Cinema, promosso dalla Cineteca di Bologna e Circuito Cinema per riportare in sala i grandi classici restaurati e ha conseguito il Premio Venezia Classici per il Miglior Film restaurato alla 72ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica . La sua proiezione sarà preceduta da un estratto dell’intervista a Pasolini realizzata da Gideon Bachmann sul set (Intervista sotto l’albero, conservata e messa a disposizione da Cinemazero, Pordenone). Contemporaneamente all’uscita cinematografica, la stessa Cineteca di Bologna ne propone la versione in dvd.
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Antinferno. 1944-45, Italia settentrionale. Quattro autorità repubblichine, il Duca (Paolo Bonacelli), il Monsignore (Giorgio Cataldi), L’Eccellenza (Paolo Quintavalle) e il Presidente (Aldo Valletti), riunite a Salò incaricano le SS e la milizia di rapire un gruppo di ragazzi e ragazze. Dopo aver stilato tutta una serie di regolamenti, provvedono a selezionare i giovani più avvenenti, chiudendosi insieme a loro in una villa nei pressi di Marzabotto, affidandone la sorveglianza ad una squadra di soldati. Coadiuvati da tre ex prostitute e una pianista, i cui racconti delle loro esperienze postribolari dovranno servire da ispirazione, imporranno ai prigionieri una fitta sequela di violenze sessuali e psicologiche, dando vita così a tre vere e proprie cerchie infernali: il Girone delle Manie, il Girone della Merda e il Girone del Sangue. Salò o le 120 Giornate di Sodoma merita di essere ricordato, ad avviso di chi scrive, sia mettendo da parte l’ormai nota cronistoria di tutte le vicende giudiziarie cui la pellicola, uscita postuma, andò incontro, in Italia come fuori dai patri confini, sia sgombrando il campo da definizioni come “testamento filmico”. Siamo infatti di fronte in primo luogo ad un lucido e al contempo spietato atto d’accusa contro ogni forma di potere che venga a costituirsi sull’arroganza e la prevaricazione, volte entrambe ad annientare, umiliandola, la purezza, la sacralità dell’essere umano in quanto tale. Secondariamente non è da trascurare la maturità registica espressa da Pasolini, che con questo film intendeva iniziare una Trilogia della morte, abiurata ormai la Trilogia della vita*, ricerca di una spontanea, giocosa, libertà d’espressione in un passato idealizzato, dove l’atto sessuale assurgeva ad una sorta di sciolto linguaggio in risposta alle repressioni istituzionali. Mantenendo i tratti tipici del proprio stile, quali la staticità delle inquadrature, i primi piani estremamente ravvicinati, la compostezza “pittorica” dell’immagine, senza dimenticare il contrasto fra il solenne incedere del motivo sonoro e le varie efferatezze visualizzate, Pasolini realizzò una messa in scena indubbiamente cruda, a volte resa volutamente insopportabile alla vista, coadiuvato dai raggelanti toni bluastri della fotografia di Tonino Delli Colli, a far tutt’uno con le scenografie di Dante Feretti. Sfruttando l’impianto base del romanzo, incompiuto, Le 120 giornate di Sodoma (Les Cent Vingt Journées de Sodome ou l’École du libertinage, 1785) di Donatien Alphonse François de Sade, l’incedere narrativo viene spostato dalla Francia che si avviava verso la fine del regno di Luigi XIV all’Italia Repubblichina di Salò, in quanto simbolo, riprendendo le parole di Pasolini, analogamente al citato testo originario, dell’anarchia propria del potere, il quale si esplicita nella compilazione ed applicazione di leggi e regolamenti. Servendosi dello schema dantesco in gironi, ecco visualizzarsi una “grande omologazione” a danno di giovani individui, uomini e donne, costretti a subire ogni genere di costrittiva sopraffazione, fisica e morale, fino alla tortura, contro la quale si levano pochi gesti di ribellione, per lo più individuali (il saluto a pugno chiuso di un milite ribelle, in quanto sorpreso a fare l’amore con una cameriera di colore e il suicidio di una delle quattro donne, la pianista).Il grido disperato di Pasolini è rivolto essenzialmente alla (pre)visione di quanto sul finire degli anni’70 era in fieri ma si sarebbe conclamato da lì a poco, la decadente mercificazione di uomini ridotti ad esseri privi di una benché minima scelta che non sia imposta, subdolamente, dall’alto.
Qualsiasi atto non è più manifestazione di un’intima soddisfazione, non è frutto di una spontanea volontà di ricerca, ma “semplice” oggetto al centro di una decadente mercificazione, ricercata ed imposta in nome di un permissivismo consumistico, il corpo come merce, legalizzato ad uso e consumo delle classi dominanti. L’urlo straziante di una ragazza (Dio, perché ci hai abbandonati?) che precede le terrificanti torture alle quali i Signori assistono dall’alto del loro palazzo, nell’ottica ravvicinata offerta dai cannocchiali, rende testimonianza, più che all’assenza di una divinità a lungo invocata, al totale sostituirsi nell’esercizio del potere alle “funzioni” proprie di Dio.
Franco Citti in “Accattone”
Il finale, sempre ad avviso dello scrivente, può offrire nella sua ricercata ambiguità una duplice interpretazione: i due militi che danzano insieme una volta mutato canale radio (dai Carmina Burana si passa al motivetto Son tanto triste), si trovano a raffigurare tanto una possibile, ritrovata, fiducia dell’autore nell’essere umano, nella sua capacità di mettere in atto, pur nell’orrore, degli atti di spontanea vitalità (anche se occorrerebbe mettere in conto un Pasolini che prende le distanze da se stesso, dalla lucida consapevolezza dell’ “abominio della desolazione” visibile in quanto finora narrato), sia l’indifferenza conclamata anche da parte della gente comune verso l’incipiente tragedia quotidiana, dopo quella manifestata dai potenti attraverso il loro distante punto di vista, ormai dimentichi del prossimo come “altro da sé”. E’ una morte spirituale, quella della mostra primigenia essenza e non il distacco dal mondo terreno visto altre volte da Pasolini in forma di salvifica resurrezione degli umili e dei semplici, dei non corrotti, una volta lontani dalle storture del mondo.
Basti pensare al riguardo all’ultimo respiro di Accattone, interpretato da Franco Citti (“Ah, mò sì che sto bene”), o alla morte di Stracci (Mario Cipriani), il ladrone buono in un film sulla passione di Cristo ne La ricotta, cui le parole del regista Orson Welles offrono una particolare benedizione: “Povero Stracci… Crepare, non aveva altro modo per dimostrarci che anche lui era vivo”.
Stracci (Giovanni Cipriani, “La ricotta”)
Neanche Pasolini è sfuggito a tale particolare vitalità, la sua tragica morte, ancora più che la sua vita, è stata oggetto di scandalo e clamore, sfruttata e vilipesa. Ma la morte, riprendendo le sue parole, “non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi”. Oggi, all’interno di una società dove l’immagine viene prima dell’uomo, il benessere viene stimato in base al profitto e al possesso, in nome di un progresso che non sempre vuol dire evoluzione, se si perde di vita la propria identità storica e culturale, nel fallimento di ogni ideologia che non sia il proprio personale tornaconto, le sue parole espresse attraverso vari mezzi, dalla poesia alla televisione, arricchendosi man mano anche di visioni ingenue o contraddittorie ma sempre stimolanti ai fini di un dialogo costruttivo, assumono quella opportuna consistenza lungimirante che a loro è sempre appartenuta, come credo sia ben evidenziato dalla poesia Alla mia nazione (La religione del mio tempo, 1959), cui affido la conclusione dell’articolo.
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
*Il Decameron (1971); I racconti di Canterbury (1972); Il fiore delle Mille e una notte (1974)