Alejandra Pizarnik nacque a Buenos Aires il 29 aprile del 1936, in una famiglia di immigrati dell’Europa orientale. Studiò Lettere e Filosofia all’Università di Buenos Aires e, in seguito, pittura con Juan Batlle Planas. Tra il 1960 e il 1964, la Pizarnik visse a Parigi, dove lavorò per la rivista “Cuadernos” ee alcune case editrici francesi, pubblicò poesie e testi critici, tradusse Antonin Artaud, Henri Michaux, Aimé Cesairé, e Yves Bonnefoy, e studiò storia della religione e letteratura francese alla Sorbona. Dopo essere tornata a Buenos Aires, pubblicò tre delle sue raccolte poetiche più importanti: Los trabajos y lasnoches, Extracción de la piedra de locura e El infierno musical, e l’opera in prosa La condesasangrienta. Il 25 settembre 1972, mentre trascorreva un fine settimana fuori dalla clinica psichiatrica in cui era internata, si suicidò con un’overdose di barbiturici.
REPARTO DI PSICHIATRIA
Da anni in Europa
Voglio dire Parigi, Saint-Tropez, Cap.
Saint-Pierre, Provenza, Firenze, Siena,
Roma, Capri, Ischia, San Sebastiano,
Santillana del Mar, Marbella,
Segovia, Ávila, Santiago,
e tanto
e tanto
per non parlare di New York e del West Village con tracce di ragazze strangolate
–voglio che mi strangoli un nero – dico
– ciò che vuoi è che ti violenti – dice (oh Sigmund! Con voi finirono gli uomini del mercato matrimoniale che frequentai nelle migliori spiagge d’Europa)
e poiché sono tanto intelligente da non servire a niente,
e poiché ho sognato tanto da non esser più di questo mondo,
sono qui, tra le anime innocenti del reparto 18,
persuadendomi giorno dopo giorno
cheil reparto, le anime pure e io abbiamo senso, abbiamo destino,
–una signora originaria del quartiere più oscuro di un paese che non figura sulla mappa dice:
–Il dottore mi ha detto che ho dei problemi. Io non lo so. Ho qualcosa qui (si tocca le tette) e una voglia di piangere che mamma mia.
Nietzsche: “Stanotte avrò una madre e smetterò di essere.”
Strindberg: “Il sole, madre, il sole.”
P. Éluard: “Devi colpire la madre quando sei giovane.”
Sì, signora, la madre è un animale carnivoro che ama la vegetazione lussureggiante. Nell’ora in cui la partorì aprì le gambe, ignara del senso della sua posizione destinata a dare alla luce, alla terra, al fuoco, all’aria
però poi una vuole rientrare in quel maledetto guscio,
dopo aver tentato di nascere da sola estraendomi la testa dall’utero
(e poiché non ci sono riuscita, voglio morire ed entrare nella fetida tana dell’occulta occultatrice la cui funzione è occultare)
parlo del guscio e parlo della morte,
tutto è guscio, ho leccato gusci in vari paesi e non ho sentito che orgoglio per il mio virtuosismo – la mahatma gandhi della leccata, la Einstein del pompino, la Reich della slinguazzata, la Reik dell’aprirsi un varco tra i peli come rabbini desiderati – oh. il godimento del sudicio!
Loro, i medicucci del18 sono dolci e addirittura baciano il lebbroso, ma
sposerebbero il lebbroso?
Un istante d’immersione nell’infimo e nell’oscuro,
sì, di questo sono capaci,
poi però viene la vocina che accompagna i giovanotti come voi:
– Si potrebbe far di tutto questo una barzelletta, no?
E
sì,
qui al Pirovano
ci sono anime che NON SANNO
perchéle disgrazie siano andate a trovarle.
Pretendono spiegazioni logiche i poveri tapini, vogliono che il repartoautentico porcilesia
pulitissimo perché li terrorizza il sudicio, e il disordine, e lasolitudine dei giorni vuoti abitati daantichi fantasmi emigrati dalle splendidee illecite passioni dell’infanzia
Oh, ho baciato tanti cazzi per ritrovarmi all’improvviso in reparto pieno di carneprigioniera
incui le donne vanno e vengono parlando del miglioramento.
Però
cosa curare?
E da dove iniziare a curare?
È vero che la psicoterapia nella sua forma esclusivamente verbale e bella quasi quanto il
suicidio.
Si parla.
Si arreda lo scenario vuoto del silenzio.
Oh, se c’è silenzio, questo diviene messaggio. –
– Perché non parla? Cosa pensa?
Non penso, almeno non metto in atto quel che chiamano pensare. Assisto all’inesauribile fluire del mormorio. Talvolta – quasi sempre – sono umida.
Sono una cagna, con buona pace di Hegel. Vorrei un tipo con un cazzo così e prendermi e a darmelo fino a smettere di vedere guaritori (che senza dubbio me la succhieranno) affinché mi esorcizzino e mi procurino una buona frigidità.
Umida
Guscio di cuore di creatura umana,
cuore che è un piccolo neonato inconsolabile,
“Come un lattante ho taciuto la mia anima” (Salmo)
Non so cosa ci faccio io nel reparto 18 salvo onorarlo della mia prestigiosapresenza
(se solo un po’ mi amassero mi aiuterebbero ad annullarla)
oh non che voglia conquistare con la morte
voglio soltanto porre fine a questa agonia che diviene ridicola a forza di prolungarsi,
(Ridicolmente ti hanno adornato per questo mondo –dice una voce che ho impietosito)
E
Che t’incontri con te stessa –disse.
E io dissi:
Per riunirmi con il me del con-me ed essere la stessa e sola identità con lui devo uccidere me affinché lui conmuoiae, in tal modo, annullati i contrari, il dialettico supplizio termini nella fusione dei contrari.
Il suicidio determina
un coltello senza lama
cui manca il manico
Perciò:
addio soggetto e oggetto,
tutto si unifica come in altri tempi, nel giardino dei racconti per bambini pieno di ruscelli di fresche acque prenatali,
quel giardino è il centro del mondo, è il luogo dell’appuntamento, è lo spazio divenuto tempo e il tempo divenuto luogo, è l’alto momento della fusione e dell’incontro,
fuori dallo spazio profano dove il Bene è sinonimo di evoluzione di società di consumo,
e lontano dai merdosi simulacri della misurazione del tempo per mezzo di orologi, calendari e altri oggetti ostili,
lontano dalle città in cui si compra e si vende (oh, in quel giardino per la bambina che fui la pallida allucinata nei sobborghi malsani nei quali erravo dal braccio delle ombre: bambina, mia amata bambina che non hai avuto madre (né padre, ovviamente)
Così che trascinai il mio culo fino al reparto 18,
dove fingo di credere che la mia malattia di lontananza, di separazione, di assoluta
NON-ALLEANZA con Loro
Loro sono tutti e io sono io
fingo, dunque, di essere in grado di migliorare, fingo di credere che questi ragazzi di buona volontà (oh, i buoni sentimenti!) mi possano aiutare,
però talvolta – spesso – ribatto ai loro oltraggi dalle mie ombre interiori che questi medicucci mai sapranno conoscere (la profondità, tanto più profonda, quanto indicibile) e li oltraggio perché evoco il mio amato vecchio, il Dott. Pichón R., tanto figlio di puttana quanto nessuno dei medicucci mai lo sarà (tanto buoni, ahimé!) di questoreparto,
però il mio vecchio muore e questi parlano e, quel che è peggio, questi hanno corpi nuovi, sani (maledetta parola) nel frattempo il mio vecchio agonizza nella miseria per non aver saputo essere una merda utile, per aver affrontato il terribile mistero che è la distruzione di un’anima, per aver frugato nell’occulto come un pirata –– non poco funesto perché le monete d’oro dell’inconscio portavano morte d’impiccato, e in un recinto pieno di specchi rotti e sale versato –
stramaledetto vecchio, specie di aborto pestifero di fantasmi sifilitici, come ti adoro nella tua tortuosità semplicemente simile alla mia,
e bisogna dire che diffidai sempre del tuo genio (non sono geniale; sono un predone e un plagiario) e al contempo ti confidai,
oh, è a voi che fu confidato il mio tesoro,
ti amo tanto che ucciderei tutti questi medici adolescenti per dartene da bere il sangue e che viviate un minuto, un secolo ancora,
(voi, io, noi che la vita non merita)
Reparto 18
Quando penso alla labor-terapia mi strapperei gli occhi in una casa in rovina e me li mangerei pensando ai miei anni di scrittura continua,
15 o 20 ore a scrivere incessantemente, aguzzata dal demonio delle analogie, cercando di dar forma alla mia atroce materia verbale errante,
perché – oh bel vecchio Sigmund Freud – la scienza psicoanalitica scordò da qualche parte la chiave:
per aprirsi si apre
ma come chiudere la ferita?
L’anima soffre senza tregua, senza pietà, e i medici malvagi non tamponano la ferita che suppura.
L’uomo è ferito da una lacerazione che talvolta, o sicuramente, gli ha causato la vita che ci danno.
“Cambiare la vita” (Marx)
“Cambiare l’uomo (Rimbaud)
Freud: “La piccola A. è abbellita dalla disobbedienza” (Lettere…)
Freud: poeta tragico. Troppo innamorato della poesia classica.
Senza dubbio, molte massime le trasse da “i filosofi della natura”, da “i romantici tedeschi” e, soprattutto, dal mio amatissimo Lichtenberg, il geniale fisico e matematico che scriveva nel suo Diario cose come:
“Aveva dato un nome le sue due pantofole”
Qualcosa c’era è basta, no?
(Oh, Lichtenberg, piccolo gobbo, io ti avrei amato!)
E Kierkegaard
E Dostoyevski
E soprattutto Kafka
cui andò come a me, nonostante fosse pudico e casto
–“Che ne fece del dono del sesso?” – e io sono una masturbatrice che non ha eguali;
però a lui (a Kafka) andò come a me:
si separò
si spinse troppo lontano nella solitudine
e seppe – fu costretto a sapere –
che da lì non si ritorna
si allontanò – mi allontanai –
non per disprezzo (è chiaro che il nostro orgoglio è infernale)
ma perché una è straniera
una è dell’altra parte,
loro si sposano,
procreano,
svernano,
hanno orari,
non li spaventa la tenebrosa
ambiguità del linguaggio
(Dire Buonanotte non equivale a dire Buone nozze)
Il linguaggio
–io non posso più,
anima mia, piccola inesistente,
deciditi;
te la svigni o resti,
però non mi toccare così,
con timore, con confusione,
o te ne vai o te la svigni,
io, da parte mia, non posso più.
Traduzione ad opera di Chiara De Luca
Il testo integrale e in lingua originale lo trovate qui: http://www.contranatura.org/