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Poesie del padre – Ti hanno restituito la tua ombra

Da Met Sambiase @metsambiase
Figure in Tree di Peter Doig

Figure in the Tree
di Peter Doig

“Le richieste di accudimento e di protezione, possono trovare una risposta speciale nel padre.
Il paternage a differenza del maternagé assolve funzioni e rappresentazioni di difesa
e protezioni più pratiche…
L’immagine paterna è sinonimo di guida alla sopravvivenza
più adulta e responsabilizzante” (Franco Angeli)

ELEGIA PER MIO PADRE

Niente ti poteva fermare
Non il giorno più bello non il silenzio
Non il cullarsi del mare
Continuavi imperterrito nel tuo morire
Non gli alberi sotto cui passeggiavi
non gli alberi che ti davano ombra
non il medico che ti aveva avvertito
il dottore giovane dai capelli bianchi
che già ti aveva salvato
continuavi imperterrito nel tuo morire
niente ti poteva fermare
non tuo figlio
non tua figlia
che ti imboccava e ti aveva ritrasformato in bambino
non tuo figlio che pensava avresti vissuto in eterno
non il vento che ti strattonava il bavero
non l’immobilità che si offriva al tuo movimento
non le scarpe che si facevano sempre più pesanti
non gli occhi che si rifiutavano di guardare avanti
niente ti poteva fermare
te ne stavi in camera seduto a guardare la città
e continuavi imperterrito nel tuo morire
andavi al lavoro e permettevi al freddo di penetrarti i vestiti
lasciavi sudare il sangue nei calzini
la faccia ti diventava bianca
la voce ti si spezzava in due
ti appoggiavi al bastone ma niente ti poteva fermare
non gli amici che ti davano consigli
non tuo figlio
non tua figlia che ti guardava rimpicciolire
non la spossatezza che abitava nei tuoi sospiri
non i polmoni che si riempivano d’acqua
non le maniche che trasportavano il dolore delle tue braccia
niente ti poteva fermare
continuavi imperterrito nel tuo morire
quando giocavi con i bambini
continuavi imperterrito nel tuo morire
quando ti mettevi a tavola
quando ti svegliavi la notte bagnato di lacrime
il corpo scosso dai singhiozzi
continuavi imperterrito a morire
niente ti poteva fermare
non il passato
non il futuro con il suo bel tempo
non la vista dalla finestra
la vista del cimitero non la città
non la città orribile dalla case di legno
non la sconfitta non il successo
non facevi altro che continuare imperterrito a morire
portavi l’orologio all’orecchio
sentivi che te ne stavi andando
stavi a letto incrociavi le braccia sul petto
e sognavi il mondo senza di te
lo spazio sotto gli alberi
lo spazio in camera tua
lo spazio che ora sarebbero stati vuoti senza di te
e tu
continuavi imperterrito a morire
niente ti poteva fermare
non il tuo respiro non la tua vita
non la vita che volevi non la vita che avevi
niente ti poteva fermare

tu hai la tua ombra
i luoghi in cui sei stato l’hanno restituita
i corridoi e i prati vuoti dell’orfanotrofio
l’hanno restituita
la news boys home l’ha restituita
le vie di New York l’hanno restituita
come anche le vie di Montreal
le stanze di Belen
dove le lucertole inghiottivano zanzare
l’hanno restituita
le strade buie di Manaus
le strade fradice di Rio l’hanno restituita
Città del Messico da cui te ne volevi andare l’ha restituita
e Halifax dove il porto se ne laverebbe le mani di te
l’ha restituita
tu hai la tua ombra

quando viaggiavi
la scia bianca del tuo percorso affondava la tua ombra
ma quando arrivavi era lì ad aspettarti
tu avevi la tua ombra
le porte in cui entravi ti rubavano l’ombra
e quando uscivi te la restituivano
tu avevi la tua ombra
perfino quando la scordavi la ritrovavi
era rimasta con te
una volta in campagna
l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu rimanesti in incognito
una volta in campagna
pensasti che la tua ombra venisse proiettata da un altro
la tua ombra non disse nulla
i tuoi vestiti portavano in se la tua ombra
quando li toglievi
l’ombra si spandeva come l’oscurità del tuo passato
e le tue parole
che volteggiavano in un’aria che è perduta
in un posto che nessuno conosce
ti hanno restituito la tua ombra
gli amici ti hanno restituito la tua ombra
i nemici ti hanno restituito la tua ombra
hanno detto che era pesante e avrebbe ricoperto la tua tomba
quando moristi
la tua ombra dormì alla bocca della fornace
e mangiò le ceneri come pane
esultava tra le rovine
vegliava mentre gli altri dormivano
brillava come cristallo tra le tombe
componeva se stessa come aria
voleva essere come neve sull’acqua
voleva non essere niente
ma ciò non era possibile
venne a casa mia
mi si sedette in spalla
la tua ombra è tua le dissi
le dissi che era tua
l’ho portata con me per troppo tempo
la restituisco
ti piangono
quando ti alzi a mezzanotte
e la rugiada riluce sul sasso delle tue guance
ti piangono
ti riconducono nella casa vuota
riportano dentro i tavoli e le sedie
ti fanno sedere e ti insegnano a respirare
il tuo fiato brucia
brucia la cassa di pino e le ceneri piovono come la luce del sole
ti danno un libro
e ti dicono di leggere
ascoltano e gli occhi gli si riempiono di lacrime
le donne ti carezzano le dita,
pettinandoti restituiscono il biondo ai tuoi capelli
radono via il gelo dalla tua barba
ti massaggiano le cosce
ti vestono elegante
ti strofinano le mani per tenerle calde
ti danno da mangiare
ti offrono dei soldi
si inginocchiano e ti scongiurano di non morire
quando ti alzi a mezzanotte
ti piangono
chiudono gli occhi e in un sussurro
continuano a ripetere il tuo nome
ma non posso estrarti dalle vene la luce sepolta
vecchio mio alzati
e continua ad alzarti
è inutile, ti piangono come possono
è inverno, è l’anno nuovo
non ti conosce nessuno
lontano dalle stelle e dalla pioggia di luce
giaci al maltempo delle pietre
non c’è alcun filo che ti riporta indietro
i tuoi amici sonnecchiano alla luce del piacere
e non possono ricordare
non ti conosce nessuno
sei il vicino del nulla
non vedi la pioggia che scroscia
e l’uomo che si allontana a piedi
il vento sporco che soffia le proprie ceneri per tutta la città
non vedi il sole che trascina la luna come un eco
non vedi il cuore illividito andare in fiamme
i crani degli innocenti farsi fumo
non vedi le cicatrici dell’abbondanza
gli occhi senza luce. E’ finita
E’ inverno. E’ l’anno nuovo
gli umili portano la propria pelle in paradiso
i disperati soffrono il freddo con quelli che non hanno niente da nascondere
è finita
e non ti conosce nessuno
c’è la luce delle stelle alla deriva dell’acqua nera
ci sono pietre nel mare che nessuno ha visto
c’è una costa e la gente attende
e non ritorna niente
perché è finita
perché c’è silenzio invece di un nome
perché è inverno ed è l’anno nuovo.

MARK STRAND

Ritratto di gentiluomo seduto -  Frederic Whiting

Ritratto di gentiluomo seduto -
Frederic Whiting

PAPA’

Non servi, non servi più,

O nera scarpa, tu

In cui trent’anni ho vissuto

Come un piede, grama e bianca,

Trattenendo respiro e starnuto.

Papà, ammazzarti avrei dovuto.

Ma tu sei morto prima che io

Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,

Statua orrenda dal grigio alluce

Grosso come una foca di Frisco

E un capo nell’Atlantico estroso

Al largo di Nauset laggiù

Dove da verde diventa blu.

Un tempo io pregavo per riaverti.

Ach, du.

In tedesco, in un paese

Di Polonia al suolo spianato

Da guerre, guerre, guerre.

Ma il paese ha un nome molto usato.

Un mio amico polacco

Mi dice che ce n’è un sacco.

Cosi non ho mai saputo

Dov’eri passato o cresciuto.

Mai parlarti ho potuto.

Mi si incollava la lingua al palato.

Mi s’incollava a un filo spinato.

Ich, ich, ich, ich,

Non riuscivo a dir più di così.

Per me ogni tedesco era te.

E quell’idioma osceno

Era un treno, un treno che

Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.

A Dachau, Auschwitz, Belsen.

Da ebreo mi mettevo a parlare.

E lo sono proprio, magari.

Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna

Non sono molto pure o sincere.

Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi

E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi

Qualcosa di ebreo potrei avere.

Ho avuto sempre terrore di Te,

Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.

E il tuo baffo ben curato

E l’occhio ariano d’un bel blu

Uomo-panzer, panzer O Tu –

Non un Dio ma svastica nera

Che nessun cielo ci trapela.

Ogni donna adora un fascista,

Lo stivale in faccia e il cuore

Brutale di un bruto a te uguale.

Tu stai alla lavagna, papà,

Nella foto che ho di te,

Biforcuto nel mento anziché

Nel piede, ma diavolo sempre,

Sempre uomo nero che

Con un morso il cuore mi fende.

Avevo dieci anni che seppellirono te.

A venti cercai di morire

E tornare, tornare a te.

Anche le ossa mi potevano servire.

Ma mi tirarono via dal sacco,

Mi rincollarono i pezzetti.

E il da farsi così io seppi.

Fabbricai un modello di te,

Uomo in nero dall’aria

Meinkampf,

E con il gusto di torchiare

E io che dicevo sì, sì.

Papà, eccomi al finale.

Tagliati i fili del nero telefono

Le voci più non ci possono miagolare.

Se ho ucciso un uomo,

due ne ho uccisi

Il vampiro che diceva esser te

E un anno il mio sangue bevé,

Anzi sette, se tu Vuoi saperlo.

Papà, puoi star giù.

Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.

Mai i paesani ti hanno amato

Ballano e pestano su di te.

Che eri Tu l’hanno sempre saputo.

Papà, papà, bastardo, ho finito.

SYLVIA PLATH

(c) Karel Funk

(c) Karel Funk

MON PÈRE

Mon père

non so perché ti chiamo così,

non parlavi francese,

ma questo probabilmente l’avresti capito,

forse mi esprimo in lingua straniera

per ritegno,

riuscivamo ad amarci

soltanto così:

non troppo da vicino.

Sedevamo

in vecchie osterie

a bere il riesling

o lo sipon

o più spesso

qualche vinello acre,

parlavamo

del più e del meno

e la vita se ne stava

dietro la porta,

a debita distanza.

Ci pareva

troppo impetuosa

per darle

un nome.

Le parole troppo grandi,

mon père,

ci facevano paura.

Adesso sei solamente

una foto alla parete

e una tomba

in un cimitero.

Ti accendo un lumino,

ti porto dei fiori.

Non a te,

alle tue ossa.

Ti racconto

tante cose.

Ma tu taci.

C’è solo la tua lapide.

Con le date.

Dal-al.

Dio mio,

cosa non dicono i figli

oggigiorno ai padri.

A quelli vivi e ai morti.

Mon père

nessuno era stato

come te.

Così solo,

così mio,

così padre,

sperduto in questo mondo

come me.

KAJETAN KOVIC

(Traduzione di Jolka Milic)

***

IL GIORNO CHE UCCISI MIO PADRE

Mio padre era un uomo libero

ma io sono più libero di lui.

Il giorno che l’ho ucciso

era un giorno qualunque.

Mi sono alzato presto, come al solito

fatto partire Grace

ho acceso il notebook e messo sottosopra

il frigo, prima di tutto il resto

che si deve fare: sciacquarsi il viso,

radersi, spalancare le imposte.

Il latte era finito; sono dovuto uscire

per rifornirmi (non posso rinunciare

ad una colazione degna di questo nome).

Mio padre, se ricordo bene, russava ancora

ignaro nel suo letto

mentre io barbuto ed accigliato

strascicavo il sembiante verso la latteria.

Pochi minuti dopo era già morto.

Il giorno che ho ucciso mio padre

era un giorno qualunque d’estate:

non un filo di vento o un timore di pioggia

una nube lontana a distinguerlo

da tutti i giorni uguali precedenti.

Fu un giorno memorabile

e nessuno se ne avvide.

Del resto chi potrebbe dire

l’istante in cui l’inverno diventa primavera,

il baco farfalla, l’attimo esatto in cui

il giglio è al culmine della sua bellezza

e il vino sboccato al punto giusto?

Dopo la colazione (mi sembra respirasse ancora)

ho letto le stesse cose del giorno precedente

sugli stessi libri, ma per poche ore.

C’era un bel tizio che diceva nulla

un altro rispondeva ohibò

ma come dialogavano… per dio!

con tutti i crismi della letteratura

più accurata e più pura, soli tra loro.

Quindi ho espletato i miei doveri di cittadino

scorrendo i titoli del televideo RAI,

e quelli d’uomo d’oggi, scrutinando

le pagine 230 e 101

(dalla sua camera nessun suono sospetto).

Sono poi uscito per comprare

una camicia bella fresca per la sera.

L’ultimo spasmo deve averlo avuto

intorno a mezzogiorno e venticinque

mentre io lucido, cosparso d’olio

di cocco o d’altro frutto tropicale

fendevo le acque delle vasca

numero 80 (o giù di lì)

nella bella piscina di campagna

dove ogni giorno pratico i miei

cinque chilometri di cromoterapia

nuotando nell’azur più puro,

per liberarmi dalle tossine

e dalle scorie dello studio.

Deve essere morto proprio in quel momento

(l’istante in cui toccavo il bordo

- la bracciata tesa -

e una rapida fitta di dolore mi ha sfiorato

la spalla destra come un presentimento)

perché, tornato a casa, del suo corpo

non c’era ormai più traccia.

D’averlo ucciso l’ho capito tardi.

È stato necessario qualche giorno

per notare l’assenza e interrogarsi

sulla questione, trovare le risposte,

stendere il regesto, denunciare il fatto.

Non l’ho ucciso per caso: questo sia chiaro.

Il colpo era premeditato nei particolari.

Restava da decidere il momento giusto.

L’ho ucciso perché non mi ha lasciato

nient’altro da ammazzare: morti i suoi padri

i suoi nonni e anche gli zii. I suoi fratelli:

morti. Tutti prima che generasse me.

E a cosa serve un uomo se non può

esercitare il suo diritto a uccidere

e a piangere i defunti più cari?

Così ho deciso: prima o poi

sarebbe morto da solo, tanto valeva

farlo con le mie mani,

per innestare in una vita grigia

almeno un mito. Quello del parricida.

***

Il mio paese è piccolo e la voce

si è diffusa con gran rapidità. Mio padre

era abbastanza noto e benvoluto

(se lo meritava: era proprio un brav’uomo).

Quando fu risaputa l’identità dell’omicida

ci fu uno scandalo di dimensioni

tutto sommato contenute

(forse perché eravamo una famiglia povera).

Non in pochi mi hanno tolto il saluto

ma i più hanno preso la notizia

con la più assorta indifferenza.

Qualcuno ancora fa buon viso, qualcuno

non fa mancare un pacca sulla spalla

non so se per pietà o per compassione.

Io quegli sguardi (allegri, sospettosi,

di disprezzo, d’invidia, d’ignoranza…)

ormai ho imparato a non tenerli in conto

più di quanto sia bene (il bene mio);

passo in mezzo alla folla a gran velocità

sulla bici scassata, quella di sempre,

e me ne vado fischiettando

un motivetto che mi piace tanto.

MARTINO BALDI

(poesia tratta dalla rivista Sagarana, n.10)


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