La prima a parlare fu la donna; aveva la voce impastata nel grasso, si sforzava come se dovesse far uscire dalla gola la bile spessa mescolata al pasto non digerito. Il cartoccio di una bibita sulla sedia accanto emanava l’odore di un innocuo e colpevole rimorso.
– Io non so quanto ci vorrà.
Le parole rimbalzarono sugli individui che occupavano la stanza. Le sedie erano disposte solo su due lati, a formare una elle, così che nessuno potesse guardare in faccia gli altri, ma solo appiccicare gli occhi sulla parete verdastra di fronte a sé, vuota, scialba, insensata.
Era curioso quell’uomo che se ne stava in piedi, col giornale aperto tra le mani. Da un po’ di tempo leggeva e rileggeva sempre la stessa pagina, sferzando ogni tanto un colpo all’aria nel tentativo di centrare una mosca vagante; poi tornava a isolarsi nell’ipnotico groviglio di inchiostro, stringendo duramente la carta ormai impregnata di sudore, mentre i suoi occhietti da roditore catturavano lettere e immagini guizzando in tutte le direzioni. Si dondolava con movimenti quasi impercettibili, sfiorando con noncuranza il piede di quell’altro signore accasciato come un sacco sulla sedia accanto, dall’aria smarrita, che muoveva il suo corpo solo per respirare, ingrossando il petto come un tacchino che vede vicino il momento del macello. – Non so nemmeno perché sono qui, disse, prima di tornare a concentrarsi sul muro davanti a sé, contemplandolo rapito, con la bocca semiaperta. La donna grassa intanto lanciava sguardi interrogativi al sacchetto abbandonato accanto a lui. – Cosa c’è lì dentro?
Il contemplatore assorto alzò le spalle con una certa innaturale lentezza.
– L’unica certezza di essere vivo.
– Il cibo, vuoi dire?
Gli occhi della donna brillavano. La mosca andò a posarsi sopra le sue lucide labbra socchiuse.
– Sì, proprio quello. Il cibo è un po’ come il mio corpo… Lo tocco, lo sento, non mi lascia… come dire… disperdere, ecco. –
L’unica persona che non dava segni né di vedere né di sentire quel poco che le stava capitando intorno, era una creatura efebica dalle lunghe gambe sottili come steli, accavallate con fragile grazia, che con la sua impressionante magrezza occupava il minimo spazio senza disturbare. Le scapole erano due punte aguzze che quasi laceravano la carne pallida, protetta da una canotta slavata e molle, un braccio cadeva inerme lungo un fianco, mentre l’altro era per metà nascosto sotto la gamba piegata, in una posizione più adatta a un manichino che a un essere umano. Non muoveva un muscolo, il suo respiro era impercettibile.
Un pesante silenzio era calato nella stanza soffocante, ora che cominciava a fare più caldo e l’attesa diventava insostenibile. Non c’erano finestre, solo un bocchettone da cui proveniva il rumore di un motore tossicchiante, probabilmente quello che doveva faceva circolare l’aria condizionata.
Il lettore sbuffava infastidito. La voce gli uscì improvvisa e stonata come da una vecchia radio arrugginita.
– Voi non capite niente. Guardatevi un po’ intorno e cercate un senso a tutto questo. –
La grassona ebbe un sobbalzo, l’uomo seduto riemerse dal dormiveglia.
– Cosa credete, che siamo finiti qui per caso? Anch’io come voi ho ricevuto la lettera, sono stato convocato da un giorno all’altro… Mi han detto che il mio contributo poteva essere di rilevante importanza per il progresso del Paese… Ma chi sono io? Solo uno qualunque che avrebbe tanto voluto passarsi un sabato mattina in pace!
Nemmeno per un istante i suoi occhi avevano abbandonato quella carta di giornale ormai deforme, violentemente accartocciata sotto le sue dita spesse, da lavoratore abituato a manipolare la materia più dura. Sembrava che non avesse fatto nemmeno caso alla mosca che aveva ripreso il suo instancabile moto.
C’era rabbia nelle sue parole, la rabbia graffiante di chi se la prende con chiunque quando non sa da dove provenga un probabile torto subito.
La grassona si sentiva a disagio, adesso. Avrebbe voluto scomparire, sciogliersi silenziosamente dentro quel sacco di tela di cui era vestita, comprato al mercato per due soldi, alla sua bancarella di fiducia che ogni settimana le metteva da parte indumenti fatti su misura per lei. Quel giorno aveva mancato all’appuntamento e la cosa la rattristava. Non c’era nemmeno un orologio nella stanzetta, sembrava che fossero passate ore da quando aveva posato il sedere flaccido su quella sedia scricchiolante. Stringeva in una mano un libro dalla copertina logora, pescato per caso dal cassetto del comodino. Lo aprì per costringere se stessa a smettere di fissare il sacchetto solitario di quel signore mezzo addormentato, strinse un po’ gli occhi e corrugò la fronte, mentre una goccia di sudore le scendeva tranquillamente lungo la guancia destra.
Il signore in trance aveva preso a muovere le labbra sussurrando parole indistinte che avevano la cadenza di una preghiera, dal ritmo monotono.
– Non… respiro… Aiuto… Non… voglio… morire… Portatemi… a casa… devo… andare… ora… –
La sua voce s’incrinava sempre di più in una nota disperata, mentre il suo grande busto lentamente scivolava in avanti, come se perdesse energia poco a poco. La signora grassa lo fissava terrorizzata; le gocce di sudore ormai erano strisce che le rigavano il viso tondo, e a queste si mischiavano le lacrime che cominciarono a sgorgarle dagli occhi. Non voleva pensare, doveva concentrarsi su qualcos’altro; così, piangendo e sudando, si sforzò per scandire con la sua voce pastosa le parole che faticosamente leggeva nel suo libretto, quello con cui giornalmente faceva esercizio, quello scritto a caratteri grandi e spessi, quel libro di favolette per bambini.
Il rumore della carta stropicciata ora sfrigolava come le fiamme di un falò tra le mani da operaio del finto intellettuale.
– Tutto inutile, tutto inutile! Voi non capite che così non ci salveremo mai… mai… –
Il signore seduto ormai era completamente proteso in avanti, aveva poggiato i palmi delle mani per terra. La grassona ammutolì e con uno scatto di inaspettata agilità balzò verso il sacchetto e lo aprì con foga animalesca, ansimando. Tirò fuori da un involucro unto un panino mezzo ammuffito, da cui colava una sostanza maleodorante. Non riuscì a trattenere i singhiozzi.
Poi lo sguardo di tutti si posò su quella creatura quasi invisibile che per tutto il tempo era parsa insensibile e gelida come una statua di marmo. Aveva gli occhi bloccati in una visione estatica, ma tutto il resto del corpo era inerme. La mosca riprese a svolazzare impazzita sopra le teste dei quattro, per scomparire poi tra le fessure del bocchettone dell’aria, oscuro e improvvisamente muto.
Il signor X fermò la registrazione con un semplice clic. Aprì il grande quaderno che conteneva la documentazione relativa agli esperimenti effettuati nell’ultimo mese, girò le pagine finché non trovò quello che cercava: “Test di incomunicabilità tra gli uomini”. Era già la decima prova che veniva effettuata sotto ai suoi occhi e ne sarebbero ancora seguite moltissime, un numero incalcolabile. Ogni volta, stringendo con forza la penna, rileggeva la descrizione dell’esperimento, soffermandosi su quella sentenza che gli risuonava di notte nelle orecchie, come un’oracolare condanna: «Tra non molti anni tutta la superficie terrestre sarà ricoperta di isole artificiali in cui si stiperanno soggetti di diversa provenienza, età, sessualità. La base della loro sopravvivenza sarà costituita dalla capacità di comunicare, abbattendo pareti divisorie dovute a differenze apparentemente insuperabili. Coloro che già nel test risulteranno inadatti allo scambio di idee e opinioni, dovranno essere eliminati all’istante».
Strinse i denti e con un movimento netto tirò delle linee nere sulla lista infinita gli si srotolava davanti.