Poesie e Racconti # 63 – La Bugia del Cerchio

Da Dietrolequinte @DlqMagazine

Giuseppe Ippolito 17 luglio 2013 

Il sogno

Passava intere giornate seduto sulla sua poltrona color sabbia a crogiolarsi in note ardenti. Classiche, moderne, non faceva differenza, l’universo ascoltava con rispettoso silenzio. Le scintille dell’immortalità sono ciò che di più crudele Dio poté creare, e quelle melodie ne stillavano l’infernale essenza.

Sembrava godere di quelle suggestioni, dai monumenti sonori di Rachmaninov all’ugola miracolosa di Stratos; dalla potenza di Wagner all’ironia di Mercury; dalla grandezza di Bach alla poesia di Ferretti; era un continuo precipitare. Nei suoi sogni albergavano vanità, avventura e distruzione. Le note di quei folli riuscivano a dargli il giusto conforto e di questo non si dava pace; non riusciva a capacitarsi di come poteva trarre piacere da emozioni partorite da altre sensibilità, certamente diverse e lontane dalla sua. Interrogandosi, un lieve sorriso, come di chi conosce il torvo fine dei propri pensieri, gli si dipingeva dolcemente lungo le calde e morbide labbra. Egli era strano, sapeva di esserlo; sorrideva, in vero, al pensiero che certa gente lo indicasse a quel modo; sorrideva nel pensare a quanto strana fosse in realtà quella gente!

Passava intere giornate in compagnia di queste riflessioni ed era solito sorriderne.

Stava silente al centro della stanza e fissava, divertito, la finestra chiusa ferita dai possenti raggi della vita. Gli bastavano, molto spesso, due o tre nuovi assestamenti su quella grande poltrona per vedere il pallore della Dea Celeste illuminargli il viso attraverso quella stanca fessura sul mondo. I suoi occhi in quei momenti sembravano dire: «Interessante come le cose acquistino nuove peculiarità private di quei raggi possenti, quelle false onde impalpabili che attraversano spazi gelidi e incomprensibili al solo scopo di creare e dare tormenti. Quelle onde, la loro assenza, i cambiamenti; interessante, interessante davvero…».

Scostata la lunga e corvina chioma, si guardava intorno e poteva godere della vista delle tende, cornici eteree del mondo; di parte della scrivania, luogo questo dove riversava i suoi avambracci quando, chino, traduceva i suoi pensieri in simboli e lettere; del giradischi che modulava suoni dalle casse e riflessi lunari dalla superficie tremolante del vinile. Poteva poi immaginare tutto quello che era celato nell’ombra, che si era dichiarato invisibile, ma non per questo inesistente: l’altra metà della scrivania; la sedia dall’alto schienale; la libreria contenitrice di svariate anime e poi il letto, del quale si scorgeva appena la semplice struttura in ferro, teatro dei suoi sonni animati. In un angolo l’armadio con l’enorme specchiera catturava, in quella penombra, ogni venatura argentea e vi incastonava il profilo destro del suo corpo rilassato. Anche il lampadario era in parte visibile e quindi riflesso dallo specchio, a dimostrazione che quella luce tenue era abbastanza diffusa in quelle tenebre. L’impressione era quella di una goccia di colore pallido su una superficie scura, un buio-grigio, un ambiente bicromatico fosco, ma tuttavia sereno e avvolgente. La perfetta cornice per una favola nera, «la mia favola nera» si diceva, con squisito orgoglio, mentre si osservava nella simmetria metallica di quello specchio. E non è certo eresia dire che trascorresse le lunghe giornate in attesa proprio di quei momenti, che puntuali egli accoglieva alla fine di ogni diurno clamore. I suoi occhi, dalle pupille dilatate ormai quasi completamente, creavano spesso, in quel torpore, due lacrime dolci che cominciavano a modulare quell’atmosfera sospesa rendendola ancora più affascinante. Egli giocava un po’ con quelle sue figlie, stringeva gli occhi, poi li sbarrava improvvisamente per riposizionarli stretti come fessure, sfidandole, senza mai però permettere loro la fuga obbligata lungo le guance. Continuava così per qualche minuto e si diceva «com’è buffa la luna questa sera, molliccia e informe, davvero buffa!». Lentamente, il sonno ruffiano riusciva a sedurlo, liberando le due flebili creature che, morenti, formavano due scie lucide sulla bianca pelle del suo viso.

Melodie ondeggianti continuavano, intanto, a vagare nella stanza muta.

Aveva sempre sonni agitati perché era in quei momenti che le sue fantasie incontravano le sue illusioni e aprivano le danze eterne e pure finite dei sogni. Era possibile, di tanto in tanto, segnalare un fremito che lo scuoteva lungo tutto il corpo, mentre la smorfia del suo viso pulito o il tremolio delle sue dita eleganti, interrompevano, con maggior frequenza, quell’immobilità. C’erano giorni nei quali compiva più movimenti dormendo che da sveglio e questo la dice lunga sulla natura dei suoi inganni che non sapevano agire nello splendore diluente dei raggi solari e della vita terrena. Egli era un illuso e nel riposo del corpo trovava il suo folle sfogo. Sognava ere antiche in un futuro lontano, aveva visto le terre della psiche in cui l’illusione è eretta all’interno di megalitiche statue antropomorfe; dove i fiori di un solo colore sono in tinta con l’universo e dove viventi ansimanti non hanno ragione d’esistere.

Al risveglio ricordava sempre con sincera commozione i momenti dei suoi pellegrinaggi onirici. Vedeva libellule prive d’ali cacciare bambini che, mutilati d’ogni arto, fuggivano usando la lingua come perno. Ricordava bene il fruscio dell’erba rovente di quelle terre e il brusio tanto piacevole e rassicurante che proveniva dai pozzi luminosi dove il mistero provoca dubbi e paradossalmente serenità. Ricordava bene tutti gli aspetti di quei luoghi, tristi se si vuole, a tratti affreschi da incubo, eppure riportarli alla mente era sempre esercizio caro, poiché li percepiva come strutture base di un qualcosa che stava portando in superficie dal profondo della sua natura più spirituale; elementi che sembravano dargli uno scopo, un’entità. Egli riuscì a crearsi una vita che procedeva in un binario parallelo a quella che era costretto a condividere con i suoi simili e ne era orgoglioso, oltre che ossessivamente geloso. Aveva trovato la sua effige in una delle statue colossali e aveva cominciato a confondere la realtà con il sogno in un intreccio di interessanti sorprese. Trovava effimere tutte le altre cose e nelle pagine dei libri riusciva ad assaporare la brezza tenue tipica di quei regni intimi, un’atmosfera sospesa di eterno passaggio tra giorno e sera, notte e mattino. Il suo prossimo era il gioco di un momento e questo solo perché aveva un gran rispetto di se e degl’altri per potersene curare più di un momento. Furono in molti a vestirlo da approfittatore, da farabutto, da insensibile ed erano quei molti che poi, all’occorrenza, gli confezionavano nuovi abiti, più eleganti e preziosi, per i loro giusti comodi. Ed egli pensava, sempre con quel suo sorriso perso nel vuoto, a quanto strana, insensibile ed approfittatrice fosse, in realtà, quella gente. «Ah, questi miei simili» si ripeteva divertito.

Paura

Venne un giorno in cui il sole smise di infierire sulla povera finestra serrata e il giovane bevve fino all’ultima nota il nettare di quei nastri magnetici e di quelle plastiche straordinarie. Si alzò dalla poltrona e vi ricadde in lacrime. Aveva pianto altre volte, le lacrime in passato avevano avuto il sapore del sogno, della delusione, della gioia, del dolore, ma mai prima di allora, si erano intrise di paura. Nei suoi occhi malinconici cominciava ad affiorare l’abisso. Aveva già ascoltato quelle musiche; aveva già visto il giorno cedere il passo, la notte reclamare il dominio e sapeva che presto il sole avrebbe ripreso, lì dove lo aveva lasciato, il suo gioco. Per quanto avesse esteso il raggio di quel suo personalissimo cerchio, ne continuava a vedere il limite. Da quell’anfora spoglia che era il mondo non riusciva più a cogliere buone spezie per i suoi bisogni. Aveva assistito all’inaridirsi di tutto ciò che viveva al di fuori di se e adesso il collasso marciava inesorabile alla conquista delle sue terre geometriche, delle sue fantasie, dei paradossi che lo abitavano, della sua effige, di quella sua nuova natura tanto amata.

Fissò la finestra. Quanto avrebbe voluto che questa cambiasse forma, che si ribellasse in qualche modo alla sua pena, ma nulla accadde; la struttura di quelle ante non mosse un atomo e, in quell’istante, nell’animo del ragazzo si fece spazio una consapevolezza che non gli sembrò nuova, ma solo sepolta, accantonata e volutamente dimenticata. La fuga che aveva cercato si era esaurita. La prigione che lo aveva visto evadere non era lontana, aveva semplicemente allargato i suoi confini mutando aspetto, silenziosa come uno spietato predatore che conosce l’arte della pazienza e gode nel leggere il terrore negli occhi della sua preda. È così che la prigione dell’animo innalza le sue mura; riconoscendola le si dà struttura; è nei tormenti che poggia le fondamenta. Egli, preda, prigioniero, ne era cosciente, ma allo stesso tempo spettatore impotente. Le sue terre perdevano valore e persino la musica diveniva ripetitiva e sciocca al cospetto del suo cuore.

Smessi gli abiti da Dio e la sua nudità lo scoprì uomo, semplicemente uomo.

Requiem

All’alba tornarono i visi, le parole, i gesti, le sfumature di sempre.

Nei giorni che seguirono, identici nelle loro diversità, si pianse per una morte e come per ogni suicidio i commenti furono pressoché inevitabili e non si salvarono certo dall’essere scontati e odiosamente superficiali, oltre che di nessuna, almeno apparente, utilità.

Nel buio della tomba e nella luce della morte un’anima vaga fra i suoi castelli di note e universi di sorprese alla ricerca di terre perdute, ma presto o tardi, durante una delle sue traversate, quell’anima si desterà e capirà che l’ennesima fuga le avrà semplicemente reso i confini della sua utopia, dove le sbarre gelide della prigione sono più spesse e inviolabili e dalle quali nessuna fuga la potrà mai liberare.

Il presente

La finestra è aperta, le emozioni tacciono e la poltrona si è schiarita, colma com’è di polvere. Un bambino osserva le bianche pareti e vede sbarre lucenti imprigionare pochi ricordi di uno strano ragazzo; si espone oltre la finestra e vede una gabbia più grande e con molti più prigionieri.

Un foglio straziato in un angolo della scrivania recita:

«I miei occhi hanno udito l’urlo fortemente espressivo di quei colori, ciò che hanno udito è penetrato fin nelle viscere della mia anima scuotendo l’arbusto dei ricordi fino a spogliarlo d’ogni sua foglia. Tremavano quei rami all’alitare di volti angelici che indicavano la vicina tempesta, tremavano quei rami e i miei occhi, fra le lacrime, scorsero terre inimmaginabili, dove l’illusione è eretta all’interno di statue giganti, dove i fiori di un solo colore si sposano in tinta con l’universo e dove viventi ansimanti non hanno ragione d’esistere. Sono ancora vive quelle urla, i miei occhi ne hanno stillata una visione ben definita. Mentre su quei rami tortuosi cominciavano a germogliare i nuovi fiori, la mia anima prendeva le sembianze di una bambina che, prostrata ai piedi dell’arbusto dei ricordi, pregava con passione affinché nuovi frutti diffondessero aromi nuovi nella valle, che depressa da quei rumori assordanti, cominciava la sua deriva lontano da quelle terre… Devo aggrapparmi all’erba rovente che ha visto sorgere aurore celesti come monumentali cattedrali nel cielo, devo calarmi nei pozzi luminosi, trovare la disarmonia e abbeverarne lo spirito, devo essere libellula cacciatrice, meccanismo perfetto nel gioco della mia imperfezione. Devo trovare la maschera che mi cela, devo scoprire la sua esistenza…».

Il bambino smette di leggere e con un fare meccanico conserva il pezzo di carta, chiude la finestra con cura e, con uno strano e inconsueto sorriso, osserva la poltrona color sabbia che in un fianco è diventata più scura. Si siede, chiude gli occhi e decide di sognare.

Una brezza nasce dal nulla, la stanza si riempie di note. Il bimbo ha un fremito. Il sole viene divorato dalla notte.

Il piccolo scivola sull’erba rovente di un luogo che, in qualche modo, appartiene a sue sopite memorie…

Il futuro

La Dea Celeste racconterà l’ennesima bugia al suo amato pianeta satellite.


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