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Poesie fiorentine – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 13 febbraio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Poesie fiorentine

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Poesie fiorentine – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Melmoth

Pervade stanchezza
Inusitata delicatezza
Pensare che
Fare che
Iniziare finendo passioni
Si concretizzano delusioni

Lo sa Melmoth
Dove chi affogare
Cuore di vetro
E’ luna pulsante trafitta di luce
E buio nelle trame che il tempo scuce

Ci si ritrova in incanto di
Di scoprire che
Che finita è la notte
Che iniziato è il giorno
Ma noi sempre a domandarci
Quando e quando ancora finirà
Il barbaro dono d’amare
Tessendo stanchezza
Delicatezza
Anima

Perché ti ho baciata?

Il viso erano gli occhi di te
sorridenti tristezza.
E Dio!, Dio!,
mi salvi da tanta bellezza
che non sapevo
immaginare oltre la tenerezza.

Avrei dunque seguito
il tuo sorriso riflesso nella luce
di quegli occhi unici?

Arrendere la volontà
in te
perché non fosse balsamo,
ma incontro di fiamme amanti,
lontane,
eppure tanto vicine
per naturale istinto.

Avrei dunque baciato
il Dio che c’è,
che esiste in te,
e si spande
nell’incantato
mistero dell’Infinito?

Trema la paura in me.
Ed è l’ebbrezza fresca
del tuo sapore,
nettare che netta
in lagrima solitaria
il volto tuo,
lagrima offerta
alla solitudine sua
come alla mia,
alla tua.

Il volto di te
che è il mio,
il sorriso di te
che è il mio.

So che ti ho baciata,
(…)
Anima.

Bisogna sapersi Addio

Bisogna sapersi Addio
per frantumarsi negli sguardi petrosi
che si son visti
inseguendo orizzonti sbrecciati
di dolori sofferenze gioie.

Bisognerebbe credere in Dio
e cadere in vertigine
che sia rinascita e morte,
carezzando la propria Anima
e crederla sasso e peccato.
Ma prima, amore.

Che avesse, dir non so:
così sbagliato mai era stato,
abbagliato nell’intrico d’un profondo sonno
a naufragar in turbato mare di confusioni,
di abbagliamenti,
di già viste intime solitudini.

Dir non so che demone l’avesse
in libero possesso!
L’ultima volta
si asciugava sudata lagrima
simile ad addormentata pallottola,
ma io credevo nutrisse innocuo fastidio
nella tempia conficcato.
E bestemmiava in latino,
scolando via sangue e vino.
Tremante tentava poesia.
Ti guardava ubriaco di Majakovskij,
poi, pazzo, gridava: “E’ rosso!”
Ti guardava ubriaco di Pavese,
poi, sereno, cantava:
“Perdono tutti e tutti chiedono di perdere.
Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”

Non rivolse sguardo più a nessuno.
La sua storia tutta qui,
nella nudità d’una lapide
che deserta io vedo.
Rossa.

Oh,Venere!
(Larmes et Sanglots)

Il tuo viso arrossato
in un respiro
è il mio sospiro.

Oh, Venere!
Venere,
che ti spandi
nella solitudine
a colmarla
dolcemente
con delicatezza innocente
un poco dolente,
sappi
che
mi son perso in te.
Inaspettatamente
felicemente
triste d’esser triste.

Notti solitarie,
lontane,
sanno solo pensare
che gli occhi,
che il sorriso
mi sono vicini.

Se penso che
è il solo pensiero
che s’invola a te,
tenero struggimento
quasi impotente
si fa piaga di violino
disegnando la dolce linea
dei tuoi seni.

Se penso che,
che in fondo sei in me,
si eterna
la gentilezza d’un bacio
sognato
commosso di lagrime
dure a venire,
dure a morire,
simili a tenerezza:
lagrime, sì,
uguali a te.

Se c’è il sole,
se c’è la notte,
l’ubriaca voce
traballante
ti canta
sempre:
Venere,
Venere,
Venere…

Sei tu,
sei tu
che sei Luna Piena
a giacere fra le braccia
del mio sogno,
della tua Anima
che so gemella
alla mia impazienza.

Mondo freddo di fuori,
caldo nei nostri affanni,
mondo che sappiamo
come vorremmo che fosse,
Noi,
Noi non temiamo
il dispetto
del tempo che passa.

Ti ricordo
da sola
alla stazione:
tendevi lo sguardo,
cercavi le rotaie
segnando il percorso,
lontano vicino,
d’un treno.
Incupita,
gravida di ansia
cullata come figlio
in grembo,
tu eri lì
perché
il momento arrivasse
e fosse.
Per sempre.

Oh, Venere!
Ti ricordo così,
incerta nella certezza,
che sarebbe arrivato
finalmente l’abbraccio
e poi il bacio
a suggellare
tenerezza
in Anima e Corpo.
Per Noi.

Sì, così ti ricordo.
Così,
mentre ancora
sogno quel momento.

Il tuo viso arrossato
in un sospiro mai ultimo
è il mio fiato,
la sola Anima che posso
desiderare eternata.

Venere.

Ti canto in
Larmes et Sanglots:
“Mon Amour, comprends-tu
ce que arrivera demain?”

E tu mi canti:
“Je voulais pleurer
pour la dernière fois!
La douleur n’est plus
une fatalité.”

Oh, Venere!


Immagine crepuscolare
(Le voleur des songes)

E Gennaio mi rimane:
neve freddo,
una manciata d’incontri
rovinati nella speranza.

Si discute – caro Amore –
del mondo,
di quanto sia tondo,
mai perfetto
se non nella gravità
che spreme nostra natura
per un domani che sarà
in forse e chissà.

Vita è una sola,
e ognuno la gestisce
al meglio al peggio
delle espressioni
prigioni
del troppo detto,
nel mai fatto.

Sì, – caro Amore -
si muore così,
sperando
in amore,
solito nulla abusato
nella placidità delle ombre
sole sembianze
a noi conosciute.

In un crepuscolo
che mangia
il tentato volo dell’anima,
noi si immagina
come morire,
perché sia un ridere
senza far male
all’ombra frale
che nascosta resta
nell’invito d’un definirci.

Due gabbiani

Ma che bell’Anima hai, che ho!
E s’era insieme che quasi si faceva sera,
e le Anime proiettavano,
oltre Ponte Vecchio,
volo di due gabbiani.
Ed erano i soli a sfidare i riflessi smeraldo dell’Arno:
finalmente sceglierà!, osavo in pensiero tutto mio.
Ma il freddo vento forte soffiava
per quanto forte ci stringessimo,
camminando in mezzo alla ressa
a se stessa abbandonata.
La confusione quasi gitana mi pareva,
o una Venezia in miniatura,
una cartografia per un amore nuovo
o una Terra Promessa.

Come Ebreo Errante perseguivo l’errare mio
di strada in strada
accompagnato da bella fanciulla tremante,
fragile e forte come quel volo di gabbiani
che gli occhi nostri inseguivano lontani.

L’Arno si scherniva nel suo riflesso
di greche nubi sullo specchio dell’acqua:
si montava in ardore, poi scemava improvviso
frangendo onde sulle secche rive; e l’eco era risata
impenetrabile come diaspro.
Avevo un libro che non avevo portato,
quelle lettere a Felice, l’amor di Franz:
Ma Felice lo lasciò per un berlinese uomo d’affari
e l’Ebreo Errante, modesto attore jiddish, moriva,
moriva vicino, quasi sotto il letto dove s’era nascosto.
Attratto dal suono del violino di Grete,
dell’amata sorella, l’Ebreo Errante uscì dal nascondiglio:
ormai scarafaggio, non riconosciuto,
subito venne schiacciato.
Dio! Avessi avuto quelle lettere,
non sarebbe stato diversamente.
Un dubbio però nuoce ai gabbiani in volo,
in cielo,
sopra lo specchio d’onde dell’Arno.

E fu tempesta e fu quiete: e che c’è di strano?
Che bell’Anima ho, che hai, che abbiamo.
Strano ridere piangere e poi baciare
e dire “non lo so che voglio!”
Un ingorgo di parole non era,
baci furono:
paradiso purgatorio inferno fu baciare.
Un limbo in tempesta, in quiete,
un semplice “non lo so che voglio!”

Suggeriva il moresco bardo:
quanto vale un suggerimento?
Una dolce illusione di carne sangue, e Anime.
E, Anime?

Si era due gabbiani in Firenze.
Il freddo vento ci accompagnava,
ci riscaldava,
ci faceva volare oltre Ponte Vecchio.
E Tu,
Tu eri il più bel volo, l’ammirazione completa,
la Firenze nei miei occhi.
Fossi stato più cieco, meno pazzo,
con un libro di epistole in dono,
sempre gabbiano sarei stato,
sempre scarafaggio sarei venuto.

Che bell’Anima ho.
Che bell’Anima hai.
Che abbiamo.

Ci lasciammo senza graffi sui seni,
su di noi.
E fu nostra tristezza,
il peccato d’amor temuto
voluto
non osato.
E fu nostra tristezza.

Sì, si era due gabbiani,
in Firenze.

Ultima poesia

Oh, Venere!
Fu incantamento
o dissanguamento
tentare la vita?

Morire nei versi
ogni volta consumati nelle notti insonni
mi spaventa il sogno l’incubo
che mi tiene compagnia.

Vivere nei vuoti
che l’Amore non legge nelle tue notti insonni
mi sprofonda l’anima in tua gemellare
che non mi tiene compagnia.

Esistere nel silenzio
che ormai ci ha adottato nella sua notte,
questo lo spirito d’indifferenza
che ci resta.

Ed è l’ultimo incantamento
morire vivere.
Ed è l’ultimo dissanguamento
esistere.

Oh, Venere!
L’ultima poesia
che so per Te,
fallendo
in questi vuoti versi.

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