Saniyya Saleh
Un milione di donne ti sono madre
Oh foresta dal mio cuore incendiata
avvicinati,
ignora quel che non si può tralasciare,
sussurrami in bocca
il tuo celato fruscio, nelle orecchie
e nei pori,
rivela la tua rivolta
e fiorisci
nella cupola perforata
di un corpo barcollante.
Non è forse duro l’inverno? Non lo sono anche
la pioggia e la tempesta?
Ma, oh, come sono belli
quando cedono il passo.
Non sapevo che la dimenticanza avesse le gambe
e se ne va e viene come un cavallo riottoso
che attende la caduta della rosa color bronzo
da lassù in cima.
Se gli cade sul dorso,
spicca il volo portandola con sé,
se gli cade tra le zampe
le sferra un calcio.
Oh, foresta che sei fiorita nel mio corpo,
non temere.
In te ho nascosto la mia anima
o tra due fessure forti come eserciti
(sebbene gli eserciti non ci conoscano e non si curino di noi).
Sprofonda la tua testa dentro di me,
penetrami
fino a far intrecciare le nostre ossa.
Vicine, una accanto all’altra
avviluppate come dualismo di cuore.
Toccami come Dio avrebbe toccato il fango
e in un baleno mi trasformerò in essere umano.
Come posso fuggire, tesoro,
quando le fiamme del mio cuore ardono in ogni direzione,
nelle parole e nei silenzi,
perché tu possa nascere un milione di volte
in epoche di stranezze ancora più grandi.
Oh mia bionda foresta, unisci come ferro
la mia paura e la tua, fa che le tue ossa entrino nel cavo delle mie
e poi tira dentro il resto del tuo corpo
ed entra.
Ti troverai davanti passaggi lunghi e stretti
e nel budello più angusto giace la verità.
Stai attenta e non dimenticare che lì ci vai
per urlare,
per rifiutare,
per non piegarti.
Guarda, avanzano gli spettri del mondo,
nasconditi
e sbircia dalle fessure delle finestre
o dalle toppe nelle porte.
Applaudi al passaggio di un dio
o arrampicati sui bordi delle camionette
E urla: il sangue della luna è del suo sangue
e la sua carne è del suo tessuto.
Ma quando verrai
così potrò dirti in segreto
chi è il vero dio?
Aspra lapioggia cantava una marcia militare
sparando pallottole contro le radici
(come potesti nascere in mezzo a tale battaglia?)
O Dio, comanda alla valle
di portarci alla fonte originale,
e alla montagna di portarci alla vera vetta.
Se la grande oscurità fugge dalla frusta
e la Verità giace supina sul pavimento del boia
e l’alfabeto si tramuta in leggi ingiuste
e i poeti diventano polvere sui tavoli,
piegherò il mio tempo e lo nasconderò nel tuo petto.
E se vedo la mia ombra, penserò di star strisciando
per rosicchiare il tozzo di pane della carestia.
Ma due piedi di pietra non sanno camminare.
Guarda! Il mezzogiorno è duro come il cemento
e i pugnali di ghiaccio macellano gli arti.
Anime che sanno di pane sono schiacciate dall’aria.
La tua mamma sono un milione di donne, piccolina,
e sciolgono il fiocco
dell’orizzonte perché
la morte possa essere temporanea, come il sonno.
Riesumiamo gli schiavi e i servi della gleba
e seppelliamo i padroni della fame,
e le fontane hanno aperto la bocca bianca
lanciando il tragico richiamo
(come è tremendo rinunciare alla propria anima!)
Ma sulle proprie tracce le fontane lasciano
il geranio e la rosa damascena.
Quale potere rabbioso
che strappa i feti dal ventre?
Fa che quell’inondazione
intrecci il letto della nostra solitudine.
Cosa farà quando inciampa la bestia
mentre l’inverno, come aquila,
la percuote con le sue ali?
Nel suo corpo vi sono milioni di onde,
uno zelo cronico per la terra,
mentre i marinai che annegano
scapperanno dai cancelli dell’acqua del Tempo
con la visione più nitida,
le linee delle costole visibili sul dorso,
dicendo:
dalle foreste entrate nel mare
spunteranno nuove foglie
perché il loro cuore non muore.
Così, quando il tempo chiude a chiave la sua porta su ognuno,
entrerò nel treno della morte, senza rancore,
terrò in mano il filo dell’assenza e lo tirerò,
e il mio Io immaginario arriverà,
il mio Io nato dal ventre di specchi
con le loro parole terrificanti ed oscure.
Ma i corpi impauriti secernono il balsamo che li salverà
e, guarda, la porte della pace si apre
tra il Paradiso e la Terra.
Solo la vita ci può portar via e restituirci.
La morte è perita
e i vermi si sono estinti.
La pietra umana si è scissa per permettere
alle nuove generazioni di nascere.
Per quanto mi riguarda,
tratterrò nel mio ventre
le uova della riproduzione
per vivere da vergine,
così che la primavera non sia costretta
a passare sotto la raffica di proiettili.
(Traduzione dall’ arabo in inglese Issa J. Boullata, dall’inglese all’italiano di Pina Piccolo)
Saniyya Salih (1935-1985) nacque a Mousiaf, una città sulla costa occidentale della Siria. Studiò letteratura inglese all’American Lebanese University a Beirut, dove conobbe il suo futuro marito, il poeta e drammaturgo siriano Muhammad Maghout. Le sue due raccolte I tempi raddrizzati (1964) e L’inchiostro dell’esecuzione(1970) vinsero il primo premioper la poesia indetto dalla rivista femminileal-Hasna.