Né tragici, né tragicomici. I tempi in cui viviamo scivolano inesorabilmente nel clownesco. Non ci sono più eroi, né celebrità, e l’eco metallica di una risata impazzita ammanta la quotidianità, sempre più colonizzata dall’equivoco, dalla chiacchiera, dalla curiosità. Non c’è più tempo per l’Essere, e non rimane, dunque, che l’«Essere senza Tempo». Situazione, questa, che ci convoca a un maggior impegno, a promuovere, tutti insieme, un processo costituente, attraverso cui produrre la verità, che è un continuo divenire, una questione etica (e non solo epistemologica).
E la poesia? C’è ancora “spazio” per essa?
Lee Chang-Dong ci invita, nel suo Poetry, a riflettere: un film, il suo, che è un domandare, un chiedersi se ci sia ancora, oggi, la possibilità della poesia. La sequenza d’apertura – un cadavere trasportato dalle acque di un fiume – ci catapulta all’istante al cuore del problema, suggerendoci come la finitezza umana sia la condizione a partire da cui prende corpo il linguaggio poetico, che è situato in un altro tempo, in una sospensione, dove la realtà s’illumina e acquisisce una nuova significanza, eccedendo l’ordinario. Un luogo dove le emozioni, qualunque esse siano, zampillano, come se dalla crisalide di un cadavere si liberasse una farfalla che vaghi tra le fioche luci della notte del mondo.
L’anziana signora protagonista del film (Yun Junghee) comincia ad accusare i primi sintomi di una demenza degenerativa che le provoca dei vuoti di memoria; dimentica i nomi degli oggetti, la parola pare svanire, ma è proprio in questo momento che sente il bisogno di incontrare il mondo della poesia, tant’è che s’iscrive a un corso e, magicamente, il rosso delle rose diventa sanguigno dolore, e i resti di un frutto caduto da un albero annunciano l’inizio di una nuova vita. È l’approssimarsi della fine che provoca il decentramento, riposizionando un’esistenza vissuta ai margini in una prospettiva d’autenticità che libera nuovi orizzonti di comprensione. La poesia redime, libera l’inespresso e l’impensato dal già pensato, ed è commovente udire la voce della protagonista fondersi con quella di un’adolescente, prima di congedarsi definitivamente. La virtualità di una vita mai vissuta finalmente si attualizza, e la differenza tra la realtà e ciò che la eccede svanisce in un’indiscernibilità dove la verità, prima irrigidita in un ordine simbolico decrepito, comincia di nuovo a circolare.
Certo, cimentarsi frontalmente con un tema così complesso e inesauribile rende il film Lee Chang-Dong, al di là dei suoi meriti, che sono innegabili, insufficiente. Un tentativo titanico il suo, come voler agguantare tutta l’acqua degli oceani con un secchiello. Eppure Poetry vale la pena di vederlo, se non altro per mettersi di nuovo in discussione, per liberarsi, magari momentaneamente, dai ceppi che impediscono il volo, per riguadagnare quella limpidezza dello sguardo, appannata dalla scia fumosa di una nube radioattiva.
Luca Biscontini