Point Break
di Kathryn Bigelow
con Keanu Reeves, Patrick Swayze, Garey Busey
Usa, 1991
genere, thriller, azione
durata, 110'
E' passata agli annali
come la prima donna a vincere un premio Oscar alla regia, conquistato
per un film come "The Hurt Looker", che per Kathryn Bigelow era stato il
frutto di una produzione low budget e di una storia rubata
alle cronache dei nostri giorni. Tre anomalie che, nell'evidente rottura
con i suoi trascorsi artistici, aiutano a inquadrare meglio un blockbuster
come "Point Break", realizzato - quasi vent'anni prima - quando ancora
l'autrice rientrava nella cerchia dei registi sponsorizzati dalle major - e
da un marito come James Cameron, presente nel film in veste di
produttore -, e poteva quindi disporre di cospiqui stanziamenti
finanziari e di un'ampia fetta dello stardom attoriale. In
fondo, con il senno del poi, è stata proprio la mancanza improvvisa di
queste risorse, venute meno a causa di una serie di insuccessi
commerciali (da Strange Days a K19), a stimolare i
cambiamenti del nuovo corso, caratterizzato dalla necessità della
Bigelow di reinventare il proprio cinema, sia in termini formali, con la
creazione di un nuovo dispositivo filmico fortemente documentario, che
dei contenuti, rivolti esclusivamente agli eventi della storia
contemporanea, come testimoniano uno dietro l'altra i Combact Film innestati sul conflitto mediorientale e sulla lotta al terrorimo (Zero Dark Thirty).
Ciò non toglie che Point Break, pur con i limiti di un prodotto girato all'interno del mainstream
hollywoodiano dei primi anni novanta, e quindi naturalmente contaminato
da quegli eccessi di edonismo che caratterizzarono le produzioni del
decennio precedente, rimane pur sempre il film che ha dato alla Bigelow
la possibilità di potersi dedicare a progetti più complessi e personali
(ancora Strange Days) e che, nella capacità di assorbire le
necessita di mercato all'interno di un discorso che si mantiene comunque
coerente con il resto del sua filmografia (cosa che per esempio non
succede nel precedente Blue Steel) risulta il più efficace tra
quelli girati in questa parte di carriera. A dirla tutta, buona parte
dell’attenzione riscossa dal lungometraggio dipese soprattutto dalla
presenza di due divi belli e famosi come Keanu Reeves - proveniente
dalla commedia demenziale e su cui la Bigelow scommise come attore
drammatico e d'azione - e Patrick Swayze (reduce dal successo di Ghost),
garanti di un immaginario che riusciva a mettere d'accordo pubblico e
addetti ai lavori. A cui, si deve aggiungere la scaltrezza di proporre
il film in continuità con il mitico, Un mercoledì da leoni con
cui il nostro a poco da spartire (a cominciare dalla filosofia
spirituale di stampo orientale di cui è pieno il film della Bigelow) ma
con il quale può almeno condividere la dislocazione ambientale, il
vitalismo derivato dalla pratica del surf, e soprattutto Gary
Busey, già protagonista del film di Milius e qui arruolato per il ruolo
di Angelo Pappas, collega e mentore del detective Johnny Utah, impegnato
a catturare i membri di una famigerata banda di rapinatori di banche.
Detto che il film
figurò tra i campioni d'incasso dell'annata, è opportuno andare oltre i
numeri, per ricercare quelle caratteristiche che permisero alla Bigelow
di attenuare il conformismo di un prodotto altrimenti appiattito dalle
premesse produttive; invadenti, tanto nell'ossessiva esibizione del
corpi maschili, ad ogni occasione sbattuti in primo piano in tutta la
loro compulsiva artificialità; quanto - e questo è il particolare che
più stride con la possibilità di attribuire al film una qualunque
valenza di classicità - nella cura maniacale riservata alla mise
degli attori, pettinati, laccati e messi in posa davanti alla
cinepresa, anche quando il contesto non lo renderebbe necessario, e fino
al punto da far sembrare inadeguata la pur "tonica" Lory Petty, partner femminile
fagocitata dalla bellezza statuaria dell'efebico protagonista. Per
riuscire a raggiungere l'obiettivo senza scontentare nessuno, la Bigelow
asseconda le istanze dominanti e paga dazio, obliando la realtà (parola
proibita per il cinema hollywoodiano di quel periodo) con una
produzione visiva ingolfata da eccedenze estetiche, e, appesantita da
una sceneggiatura impregnata di dialoghi slogan, volti a
enunciare un assoluto disprezzo per i valori della vita borghese.
Per
contro, l'autrice si esalta sul piano del ritmo, con accelerazioni
vorticose come quella della splendida scena dell'inseguimento in
macchina e poi a piedi, davvero degna del miglior Friedkin, e in
generale riversando nelle immagini e sullo schermo, un'energia davvero
fuori dal comune. Senza dimenticare, sul piano dei contenuti,
il lavoro di logoramento operato nei confronti di quell'ottimismo
reganiano, di cui il cinema americano si era fatto ambasciatore, e al
quale la Bigelow contrappone una pulsione di morte che lambisce
costantemente tutto il suo cinema e, che, in Point Break,
diventava il mezzo per disinnescare le sicurezze di un finale a lieto
fine, messe in discussione fuori tempo massimo da un epilogo che, nella
doppia uscita di scena dei protagonisti, lascia aperte le porte a
qualsiasi tipo di conclusione.