"L'attesa" è stato uno dei film più belli e importanti della stagione che si appena conclusa. Abbiamo avuto la possibilità e il piacere di intervistare il suo regista Piero Messina.
Dopo l’anteprima veneziana “L’attesa” ha iniziato un
percorso di distribuzione internazionale che ha permesso al film di essere
visto in numerosi paesi del mondo. Per te deve essere stata una grande
soddisfazione.
Sono molto contento di come il film viene accolto in giro
per il mondo ed è una grande gioia vedere come persone appartenenti alle
culture più disparate arrivino a provare le stesse emozioni. In Corea da dove
sono appena tornato il film è considerato adatto a un pubblico popolare e per questo proiettato in stadi che
possono contenere fino a 8000 persone. Ebbene, in una di queste occasioni
sbirciando nel buio mi sono accorto che le persone si commuovevano negli stessi
punti in cui lo facevo anche io. A differenza che in Italia però le domande che
ne scaturivano erano diverse, a testimonianza di come emozioni ugualmente
condivise una volta razionalizzate posso condurre a considerazioni anche
diametralmente opposte.
A proposito di emozioni “L’attesa” ne è impregnato fino all’ultimo fotogramma. E’ solo
un caso o è il tuo cinema ad essere concepito in questo modo.
Potrei dire che tutto il mio lavoro ruota attorno alle
emozioni e che gli attori siano il tramite per raggiungerle. Per questo motivo
sul set impiego la maggior parte del mio tempo con loro, aiutandoli ad arrivare
all’autenticità dei sentimenti che il film vuole esprimere. Nel farlo mi
comporto in maniera istintuale ma sempre nel rispetto del copione che per me è
uno strumento fondamentale. Non credo a chi dice di poterne fare a meno. Per scrivere
la sceneggiatura de “L’attesa” ho impiegato quasi tre anni curandola in maniera
ossessiva ed effettuando numerose revisioni.
Qual è l’urgenza che ti ha spinto a realizzarlo
“L’attesa” nasce dalla mia storia personale e sicuramente
rispecchia il rapporto con mia madre a cui come si capisce sono molto legato.
Non è un caso se il corteo che si vede nel film termina proprio sotto casa mia,
a Caltagirone, la cittadina che ho lasciato per venire a studiare a Roma. Tra
parentesi la processione a cui prende parte il personaggio della Binoche è stata realizzata mettendo insieme una
serie di appunti cinematografici relativi alle diverse che avevo filmato
molto tempo prima dell’inizio del film e dai quali adesso Nicola vorrebbe
realizzare un documentario.
Parliamo dell'attrice protagonista.
La scelta della Binoche è stata casuale nel senso che,
rispondendo a Nicola Giuliano (produttore del film) a proposito
dell’attrice che avrei voluto avere, ho fatto il suo nome senza pensare alla
possibilità di ingaggiarla. Conoscendo la fama di Juliette che notoriamente è
molto esigente nella scelta dei copioni abbiamo inviato la sceneggiatura al suo
agente senza nutrire alcuna aspettativa anche quando quest’ultimo ci promise
che glie l’avrebbe fatta leggere.
E com’è andata.
Improvvisamente un giorno mentre mi trovavo a fare dei
sopralluoghi sull’Etna mi è arrivata una telefonata in cui la Binoche mi diceva
che aveva appena finito di leggere il copione che mi voleva conoscere perché il
testo l’aveva profondamente commossa. Arrivato a Parigi mi sono ritrovato nel
suo appartamento a parlare del film mentre lei mi cucinava una ricetta polacca.
Si era preparata all’incontro guardando i miei cortometraggi e ascoltando la
mia musica che avevo postato su MySpace. Mi fece molte domande sulla genesi
della storia, sui miei ricordi d’infanzia e sul perché l’avevo scritta proprio
adesso. Quasi subito si è stabilita tra noi una voglia di stare insieme che è
stata la stessa che ancora ci accompagna durante la promozione del film.
Comunicavi con lei in francese.
Non conosco una parola di francese però sapevo a memoria le
battute che la Binoche avrebbe pronunciato. Con lei parlavo inglese mentre con
Lou era più difficile perché parla solo la sua lingua. Devo dire che alla fine
questa limitazione ha finito per aiutarmi in quanto mi ha imposto una
precisione e una sintesi che non avrei mai raggiunto con il nostro idioma.
Vedendola recitare nel tuo film non si può non pensare a
“Film Blu” di Kristof Kieslowski. Ci chiedevamo come hai fatto ad avvicinare
una qualità di questo tipo.
Mi fa piacere che nominiate il grande regista polacco perché
riguardandosi sullo schermo è stata proprio la Binoche a menzionarlo in
riferimento al ruolo da lei ricoperto nel mio film. Una volta sul set trovare
l’intesa non è stato facile perché Juliette pur avendo una grande tecnica ama
immedesimarsi nel personaggio e nelle emozioni che lo attraversano. In questo
caso dovendo interpretare una donna che aveva perso il figlio ogni volta che
giravo lei non riusciva a trattenere le lacrime. Era invasa da quel dolore e
non riusciva a trattenerlo. Il che non andava bene perché volevo che questa
sofferenza fosse visibile ma attonita per poi esplodere solo nelle sequenze
finali. Nei primi tre giorni di riprese gestirla mi è stato praticamente
impossibile ed a un certo punto mi sono reso conto che l’intesa iniziale era
sparita. Ci siamo fermati e ne abbiamo parlato. E’ stato un confronto franco e
diretto e quando Juliette mi ha detto “Piero io non recito io sono” è stato
impossibile rimanere calmi e ci siamo messi entrambi a urlare.
Visti i risultati mi verrebbe da dire che sia stata un
alterco salutare.
Alla fine abbiamo raggiunto un compromesso che dava a lei la
libertà di esprimersi liberamente nei primi quattro ciak e a me la possibilità
di ripetere le scene fino a quando lo avessi ritenuto necessario. Ho girato
ogni sequenza ripetendola fino a quaranta volte in modo che Juliette riuscisse
progressivamente a stancarsi del dolore che la pervadeva e riuscisse a darmi
quello che volevo. E’ stato un lavoro di sottrazione perché a me interessa
arrivare alla radice dell’emozione che voglio descrivere. Non è un caso che nel
montaggio finale i take utilizzati siano stati quasi sempre gli ultimi, quelli
in cui la Binoche non aveva più la forza di reagire.
A Lou De Grange che nel film è Jeanne la fidanzata di
Giuseppe come sei arrivato.
Dopo sei mesi di casting e all’ultimo provino. In realtà li
avevo finiti ed è solo per educazione che ho accettato di vederla. Ero molto
stanco e voglioso di ritornare in Italia e lei arrivò pure in ritardo
all’appuntamento. Appena la vidi entrare mi sembrava fisicamente inadatta. Io
ero alla ricerca di un personaggio fragile e delicato a Lou non aveva nulla di
quel candore che avevo in mente. Il provino però si è lentamente trasformato in
una prova ed a quel punto ho capito che a cambiare doveva essere il mio
personaggio che grazie a Lou sarebbe stato forte e animalesco come lei. Lou
proviene dal teatro ed è un’attrice a cui non manca la tecnica. Ma nel film a
venire fuori è la sua forza che riesce a essere alla pari con quella di
Juliette.
A partire dai personaggi per continuare con i sentimenti
presenti nella storia, “L’attesa” mi sembra un film profondamente femminile.
Sei d’accordo.
Per un regista è importante innamorarsi dei suoi personaggi.
A quel punto non c’è più nessuna distinzione tra maschile e femminile e come
regista io sono in grado di descrive qualsiasi tipo di personalità.
Il tuo è un cinema in cui la bellezza della cornice
esalta il significato dei contenuti. A questo proposito ciò che colpisce è la
qualità delle immagini in cui convivono astrazioni barocche e geometrie
rinascimentali.
Uso la macchina da presa in maniera istintiva per cui arrivo
sul set e mi ci vuole un attimo per sapere dove collocarla per girare in
maniera ottimale. Di costruito nella composizione delle immagini c’è poco
niente, tutto viene fuori in maniera naturale. Quello di cui mi occupo
maggiormente è la resa degli attori. Una volta definiti in sede di preparazione
agli aspetti dedico pochissimo tempo perché come ti dicevo ragionare per
immagini è una cosa che mi viene spontanea e su cui rifletto il minimo
indispensabile.
Quanto a contato la tua esperienza come aiuto regista di
Paolo Sorrentino.
Paolo l’ho conosciuto perché aveva visto un mio corto
proiettato al festival di Taormina ed essendogli piaciuto mi voleva incontrare
. Lavorare con lui è stato un apprendistato importante perché sono riuscito a
rubargli qualcosa della sua arte. A differenza di me è velocissimo a girare e
molto attento agli aspetti estetici; arriva al dunque in non più di quattro o
cinque take. Un aspetto che mi piace molto di lui è la mancanza di
condizionamenti che gli permette di concepire certe scene senza preoccuparsi di
quello che potrebbe dire la critica. Anche lui è un regista emozionale ma
arriva al dunque attraverso un registro diverso; non ho la sua esperienza ma
cerco di essere altrettanto onesto. Ogni scelta che ho fatto nel mio film è
stato il risultato di quello che sentivo e mi sono fermato solo nel momento in
cui ho avuto la certezza di aver colto ciò che volevo.
Parliamo della fotografia del film che contribuisce non
poco a far sentire lo stato d’animo dei personaggi.
All’inizio il direttore della fotografia avrebbe dovuto
essere Daniele Ciprì che è innanzitutto un amico e che ai tempi in cui filmai
le processioni mi aveva accompagnato durante le riprese. Al momento di girare
però Daniele si era accordato con Bellocchio per “Sangue del mio sangue” mentre
nel contempo Juliette che pure era impegnata a teatro con Antigone e che era in
partenza per gli Stati Uniti era riuscita a liberarsi per il solo mese
d’agosto. Da qui la scelta di Francesco Di Giacomo che devo dire è stata
istintiva e non dettata dai lavori che aveva fatto in precedenza. Ci siamo
confrontati su quello che volevo e su come lui lo avrebbe realizzato
tecnicamente. Per quanto mi riguarda desideravo trovare un sapore antico e
insieme a lui abbiamo pensato di lavorare con la luce artificiale e con un
sistema di quattro torrette alte circa 30 40 metri che la proiettavano
all’interno della villa attraverso i cosiddetti Jumbo, proiettori potentissimi
andati oramai in disuso e per questo adatti a ricreare qualcosa che non esiste
più.
All’inizio del film una panoramica ci mostra la macchina in
cui viaggia Jeanne attraversare un paesaggio dominato da colori neri e grigi
che fanno da presagio a ciò che attende la ragazza.
Volevo che il paesaggio facesse da cassa di risonanza dei
sentimenti dei personaggi. Di fatto la Sicilia riflessa sullo schermo è un
luogo dell’anima perché è la combinazione di diverse località. Così le pendici
dell’Etna cupe e spettrali dovevano rappresentare l’anticamera di quello che
aspettava che stava per toccare
alla ragazza e segnalare il passaggio dal suo mondo colorato e pop a quello
arcaico e ancestrale del territorio siciliano.
Di Giuseppe scegli di non dire niente, a parte i piccoli
dettagli ricavati dai libri e dai dischi che vediamo nella sua camera.
Premesso che la camera di Giuseppe è stata ricostruita con le
cose che realmente mi appartenevano quando vivevo in Sicilia è solo alla fine
che ho deciso di non mostrare il personaggio in carne e ossa. Mancavano due
giorni all’anteprima di Venezia e riguardando il film sentivo che se ne avessi
mostrato il volto avrei fatto perdere al film il suo senso metafisico. Così,
senza dire nulla a Nicola ho deciso di togliere tutti i primi piani i Giuseppe.
E’ stato un gesto di incoscienza davvero raro per come è avvenuto anche perché
chi lo interpretava (Giovanni
Ansaldo )nel film era stato davvero bravo. Alla fine questa scelta mi ha
ripagato perché il risultato è esattamente quello che avevo in mente e per
questo devo ringraziare il mio produttore che film dal principio ha creduto in
me, sostenendomi anche laddove si è trattato di rischiare dal punto di vista
economico e sto parlando della decisione di non doppiare il film. Pur sapendo
che avremmo perso qualcosa in termini di pubblico ha rispettato la mia
decisione di lasciare che i personaggi si esprimessero nella loro lingua.
Nella sequenza del funerale con cui comincia il film i
movimenti della macchina da presa stabiliscono un legame tra Anna e il
crocifisso la cui consistenza materica sembra riempire il vuoto lasciato da
Giuseppe fino al punto di trasfigurarlo.
E’ esattamente quello che intendevo trasmettere con quelle
immagini ed è proprio per questo motivo che cercavo un crocifisso che avesse la
fisiognomica di un corpo giovanile. Non avendolo trovato ho pensato di
realizzarmelo da solo, disegnandolo e poi filmandolo in 3D. Di fatto il
crocefisso che vedete sullo schermo non esiste nella realtà ma dalla percezione
delle immagini sembra esattamente il contrario.
Da come
inserisci le figure nello spazio scenico si capisce che la loro collocazione
non è casuale.
A parte la camera di Anna tutte le altre stanze sono state
realizzate nelle stalle della villa che sono diventate dei veri e propri teatri
di posa. Senza sapere il perché volevo che le figure umane fossero inserite
all’interno di ambienti che potessero esaltare gli spazi vuoti. Per questo
avevo bisogno di soffitti più alti di quelli della casa in questione e quindi
della necessità di ricrearli in studio. Solo iù tardi ho capito che il
contrasto tra il dolore di Anna e quello spazio inutile poteva essere qualcosa
di poetico, oltre ad avere la conferma che almeno al cinema la precisione te la
devi costruire artificialmente.
Quali sono, se ne hai, i tuoi registi di riferimento.
Sono sincero quando dico che quello che faccio è
semplicemente l’elaborazione di ciò che vissuto e di cui mi sono emozionato.
D'altronde il narratore è colui che elabora ciò che ha visto e per me funziona
esattamente così. A parte questo se mi chiedi il nome di un regista dico
l’Aleksandr Sokurov di “Madre e figlio” che ai tempi del film sono andato a
scovare in Russia solo per testimoniargli la stima che nutrivo nei suoi
confronti. Quando mi ha riconosciuto,
a Venezia dove anche lui era in concorso, è stato un momento che
difficilmente dimenticherò.
Visto che in qualche modo ha creato l’occasione
perché ci
potessimo incontrare volevo chiederti di dirci qualcosa della prima
edizione del Round - Trip Festival A/R dedicato a Italia e Germania a
cui hai appena partecipato
E’ stato molto bello che un festival del genere si
sia potuto fare così come l’avervi partecipato, perché oramai in Italia il
cinema è frutto di coproduzioni che però non diventano mai l’occasione di una
condivisione artistica. Diversamente la manifestazione organizzata dal cinema Kino
di Roma ha offerto a me e ai registi italiani e stranieri che vi hanno preso parte l’opportunità di
stabilire un legame transnazionale che personalmente mi ha permesso di
confrontarmi con un cinema diverso dal mio, e di conseguenza di pormi domande
che normalmente non mi faccio quando sono sul set. Se aggiungiamo che tutto ciò
è avvenuto nel corso di un dibattito a cui il pubblico poteva accedere
liberamente, beh devo dire che questo è davvero il massimo per spettatori e
addetti ai lavori.
Adele De Blasi, Carlo Cerofolini