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Poletti e il ruolo di chi lavora

Da Brunougolini

Poletti e il ruolo di chi lavoraI giornali sono pieni di scoperte emozionanti. Tramite quel buon uomo di Poletti, casualmente ministro del lavoro, hanno improvvisamente scoperto il “lavoro agile”. Meglio, anzi chiamarlo “Smart Working”. Fa più impressione, fa più modernità. Certo non bisogna confonderlo con l’ozio a cui è costretto l’esodato, con i mini-lavori dei precari non certo cancellati dal Jobs Act, con l’affanno delle partite Iva arrivate anche sulle impalcature edilizie, con la rete degli appalti a buon prezzo. Tutto vecchiume da dimenticare anche se esiste. La novità è tutta nello Smart Working.
Davvero una cosa nuovissima? E’ Cesare Damiano a ricordare che “negli anni ‘70 lo chiamavamo lavoro a domicilio, poi telelavoro, lavoro a distanza”. Ora Smart Working. E tutti a citare la Ducati (senza dire che l’accordo innovativo non è piovuto dal cielo, ma è stato concordato col sindacato). E poi la Brembo, la Vodafone, la Mec Alte, la Luxottica, la Tetrapac. Qualcuno evoca addirittura “il lavoro a isole” e mi riporta all’infanzia quando lo si sperimentava all’Alfa Romeo di Arese. E tutti comunque ad esaltare Poletti che non vuol più premiare il tempo del lavoro (il “burocratico” orario) ma il risultato. La fine, dunque dell’odioso cartellino da timbrare ogni mattina e ogni sera. Una ”conquista” già acquisita dall’esercito dei precari annidati nei gangli produttivi. E già spesso pagati a cottimo, per il numero di operazioni portate a termine e non per le ore impiegate.
Eppure una rivoluzione innovativa nei rapporti di lavoro potrebbe aprirsi dopo le prime esperienze che gonfiano il petto ai commentatori entusiasti. E che magari non citano lo Smart Working che coinvolge centinaia di giovani collaboratori precari. Una prospettiva comunque potrebbe davvero aprirsi dagli accordi di Ducati e company. Non per cancellare, come Poletti amerebbe, i contratti nazionali di lavoro, contenitori di vecchio e di nuovo. Non per cancellare diritti e tutele essenziali (le ferie, la malattia pagata, la possibilità di riunirsi e dar vita a un sindacato, una paga decente poi accrescibile aziendalmente, magari il diritto di sciopero). Bensì per riconoscere davvero quell’apporto innovativo, “intelligente” della persona lavoratrice. Non solo attraverso una piccola somma di danaro. Ma dandogli un ruolo non servile.
C’è chi si è soffermato su queste problematiche. E’ Michele Tiraboschi (già allievo di Biagi) che non ha scomunicato Poletti. Ha però detto che occorre cambiare l’impresa oltre il lavoro. Ovvero, ha scritto: “la costruzione del rapporto di lavoro e della retribuzione sul risultato e non sull`orario implica lo scaricare sul lavoratore parte del rischio di impresa e questo può essere ragionevolmente accolto, e anche stimolato, in una logica di condivisione e partecipazione dell`organizzazione del lavoro e delle sue modalità, prima ancora che dei risultati”. Se le cose stanno così i rappresentanti dei lavoratori dovrebbero entrare in un modello di “codeterminazione” per usare un termine dello scomparso Claudio Sabattini già segretario Fiom. E il governo dovrebbe cominciare a dare l’esempio riconoscendo un ruolo al sindacato, magari per spingerlo a superare ritardi e burocratizazioni. Non trattandolo a pesci in faccia come ama fare.

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