Politiche per il rilancio dell’economia italiana

Creato il 15 aprile 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

Abbiamo rivolto ad alcuni economisti questa domanda: Quali sono i 5 o 6 provvedimenti principali che possono rilanciare la crescita e L’OCCUPAZIONE PRODUTTIVA in Italia? – Dopo Paolo Pini e Paolo Pettenati, risponde Marcello Messori. Risponderanno anche Vera Negri Zamagni, Adriano Giannola, Lilia Costabile, Stefano Zamagni.

Risponde Paolo Pettenati

 1. I dati sui tassi di disoccupazione nell’Unione economica e monetaria europea (UEM) mostrano che la lunga recessione di molti Stati membri ‘periferici’ ha avuto pesanti effetti sul mercato del lavoro. Nell’aggregato, l’economia italiana non registra un’emergenza occupazionale più grave di quella europea. Anche se ha accusato una delle peggiori performance macroeconomiche durante la crisi ‘reale’ internazionale e la successiva crisi europea e ha realizzato uno dei più bassi tassi di crescita del Prodotto interno lordo fra la metà degli anni Novanta e il 2005, il nostro Paese ha anzi mantenuto un tasso ufficiale di disoccupazione leggermente inferiore alla media della UEM (11,7% rispetto allo 11,9%). Il risultato aggregato nasconde, tuttavia, una condizione del nostro mercato del lavoro che è più pesante di quanto non appaia.

In primo luogo, tale risultato si è fondato sulla sostituzione di capitale fisso con forza lavoro cosicché gli aumenti occupazionali si sono accompagnati alla peggiore dinamica nella produttività del lavoro e nella produttività totale dei fattori fra i Paesi dell’Unione europea (UE). In secondo luogo, l’Italia ha aggravato gli squilibri fra le diverse componenti della forza lavoro e fra le diverse aree territoriali: il tasso italiano di disoccupazione dei giovani è molto più alto del corrispondente tasso medio dell’UEM e il tasso di disoccupazione delle regioni meridionali è peggiore del tasso aggregato dell’UEM. Infine, in Italia i tassi di attività sono rimasti bassi cosicché il tasso italiano di inoccupazione è più alto della media UEM.

La situazione italiana è, poi, aggravata da altri due fattori: l’alto rapporto fra debito pubblico e PIL e la perdita di competitività del nostro apparato produttivo. Così, mentre il reddito disponibile delle famiglie italiane cade (in termini ‘reali’) dal 2008 e mentre la ristretta quota delle nostre imprese orientate all’esportazione migliora le proprie posizioni nei mercati internazionali, lo Stato ha limitati margini di stimolo della domanda aggregata e vi è il fallimento di molte imprese (anche efficienti) che operano nel mercato nazionale e non sono protette da posizioni di rendita.

2. Questa lunga premessa è essenziale per giustificare le cinque iniziative che i responsabili della politica economica italiana dovrebbero realizzare in via prioritaria.

Innanzitutto, nel breve periodo la ripresa economica dei Paesi periferici dell’UME richiede uno shock positivo di domanda che non può essere attivato dalle spese pubbliche nazionali (vincolate dalle esigenze di consolidamento dei debiti) ma va affidato a programmi di investimenti pubblici europei. Tali programmi, che potrebbero essere finanziati mediante l’emissione di project bond garantiti da attività del bilancio europeo, avrebbero anche il vantaggio di fungere da strumento per il rilancio della competitività di medio periodo dei Paesi più deboli. Essi dovrebbero essere, infatti, finalizzati all’ammodernamento delle infrastrutture immateriali e materiali soprattutto nei Paesi periferici. Dal canto loro, questi Paesi dovrebbero vincolarsi ad attuare quelle riforme di medio periodo che sono necessarie per migliorare il loro ambiente economico e sociale.

Nel caso dell’Italia, si tratta di intervenire sulle “esternalità negative” (inadeguata formazione delle risorse umane, opacità burocratiche, ridondanti costi amministrativi, inefficienze della giustizia, ecc.), che comprimono le dimensioni di impresa, e sulle diffuse resistenze alle innovazioni e al cambiamento mediante un sistema efficace di ammortizzatori sociali universali.

L’attuazione di questi primi due strumenti impone che i responsabili italiani di politica economica godano di una credibilità internazionale sufficiente per convincere i partner europei al varo dei programmi di investimento e di una forza interna sufficiente a vincere le resistenze dei percettori di rendita e a proteggere le fasce più deboli della popolazione. È però evidente che una robusta crescita di medio periodo non può solo basarsi su shock positivi di domanda, nel breve termine, e sul miglioramento dell’ambiente economico e sociale, nel medio termine. Per quanto difficili da attuare, tali iniziative sono semplici prerequisiti per aprire un sentiero di crescita. Il rilancio dell’occupazione poggia, tuttavia, su effettivi e sostenuti tassi reali di crescita.

3. A quest’ultimo fine, tre sono gli strumenti da porre in atto: operazioni straordinarie (ma volontarie), che abbattano lo stock di debito pubblico e allentino così i vincoli posti dal processo di consolidamento del relativo bilancio; un disegno di incentivo delle innovazioni organizzative delle imprese, che è la condizione per una più adeguata crescita delle varie forme di produttività nei nostri comparti dell’industria e dei servizi; la spinta verso una più ampia offerta di strumenti finanziari, che attenui la dipendenza delle nostre imprese dai finanziamenti bancari e che le renda meno vulnerabili al credit crunch.

Ognuno di tali strumenti ha declinazioni di breve e medio periodo e interconnessioni, che sarebbe troppo lungo illustrare. Bastino due soli esempi. Primo esempio: se si sbloccasse in via immediata la liquidazione dei debiti scaduti e non contestati, che la Pubblica amministrazione (centrale e, soprattutto, locale) ha accumulato nei confronti delle imprese, si potrebbero attenuare i vincoli di illiquidità delle imprese e – quindi – delle banche. Se questa liquidazione fosse poi intermediata dalle banche e – per la parte più problematica – dalla Cassa depositi e prestiti, sarebbe possibile rendere stringente il Patto di stabilità interno e spingere Regioni ed enti locali a dismettere parte del loro patrimonio; il che avvierebbe anche processi di riduzione straordinaria (e volontaria) del debito pubblico.

Secondo esempio: la realizzazione di innovazioni organizzative e il conseguente rilancio della produttività non sono compiti del policy maker ma delle imprese e delle parti sociali. I responsabili di politica economica possono, tuttavia, agevolare tale processo mediante nuove forme di politica industriale; d’altro canto, la capacità delle imprese di ristrutturarsi e di innovare ne palesa il potenziale competitivo e può fungere da guida per un’efficiente allocazione degli interventi di policy.

4. Quanto detto può suscitare un’ovvia osservazione: gli strumenti enunciati sono iniziative per la crescita di breve e medio periodo, non politiche per il rilancio dell’occupazione; e, almeno nel breve periodo, i due obiettivi possono essere in contraddizione. Se questo fosse il messaggio trasmesso, avrei (quasi) raggiunto il mio scopo. Non credo infatti che la metafora keynesiana dello ‘scavare buche per riempirle’ sia applicabile alla realtà di oggi; credo, invece, che il solo modo per rilanciare un’occupazione sostenibile sia di collocare l’economia italiana su un sentiero di sviluppo di medio periodo.


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