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Cosa fareste se scopriste che la casa dove abitate fu costruita su un terreno un tempo destinato a cimitero? E cosa fareste se vi dicessero che, quando ne gettarono le fondamenta, nessuno si preoccupò di trasferire i resti i coloro che vi erano seppelliti? Dormireste ancora sonni tranquilli? Non credo, visto che, come sosteneva un certo Jorge Grau a metà degli anni settanta, “non si deve profanare il sonno dei morti”. Come dite? Sembra la trama, trita e ritrita, di un film dell’orrore? Avete ragione. È infatti la storia che quella vecchia volpe di Steven Spielberg usò come base quando scrisse la sceneggiatura di “Poltergeist – Demoniache presenze”, un vero cult che non dovrebbe aver bisogno né di presentazioni né, tantomeno, di questo post, ultimo tra tanti, che ne celebri i fasti.
Ma oggi è il 67° compleanno di Steven Spielberg e, come è già accaduto altre volte in passato, The Obsidian Mirror si unisce ad una ventina di altri bloggers per celebrare l’evento in pompa magna. Ciascuno di noi oggi ha scelto un film, prelevandolo dalla sterminata produzione del regista americano, e… il risultato lo potete vedere in chiusura di post, laggiù in basso.In verità, quando un paio di settimane fa mi sono trovato a dover scegliere il “mio” film, mi sono trovato nell’imbarazzo di non avere la più pallida idea di quale preferire. Per scrivere di un film, riflettevo, bisognerebbe avere anche qualcosa di interessante (o di nuovo) da dire e, per quanto mi sforzassi, nessuno dei film di Spielberg riusciva a far scattare in me la molla. D’altra parte basterebbe guardare l’elenco dei film che ho recensito in precedenza qui sul blog per rendersi conto di quanto male possa inserirsi un “Indiana Jones” o un “Jurassic Park” in quanto fatto finora. Alla fine, dopo lunghe meditazioni, ho optato per un titolo che apparentemente non c’entra nulla: “Poltergeist – demoniache presenze” porta infatti la firma di Tobe Hooper, leggendario filmaker del cinema horror (un tantino sopravvalutato, a mio parere) e padre del fondamentale “Non aprite quella porta” (1974). Steven Spielberg lo troviamo accreditato come sceneggiatore e come produttore, anche se, come vedremo tra poco, più di un indizio ci fa ritenere che ci sia il suo zampino anche dietro la macchina da presa.
Steven Spielberg lo conosciamo tutti; sappiamo quando sia un regista “mainstream” e quanto sia completamente integrato nel circuito hollywoodiano. Qualcuno lo ha (giustamente) definito “il Re Mida” del cinema, visto che in quasi cinquanta’anni di carriera ha trascinato al successo qualunque cosa gli fosse passata tra le mani, dalla fantascienza alla commedia, dai film di avventura a quelli storici, dai film di guerra ai thriller. Da un certo punto di vista Spielberg potrebbe essere considerato un regista “né carne né pesce”, forse un po’ paraculato ma, sebbene una grossa parte del suo successo sia dovuto al massiccio uso di effetti speciali, non posso non riconoscerne lo spessore.
Dicevamo prima che Poltergeist, per più di un motivo, sembrerebbe essere a tutti gli effetti opera di Spielberg. Sebbene i crediti di regia siano andati a Tobe Hooper c’è infatti più di un motivo per credere che quest’ultimo sia stata una figura di secondo piano nella realizzazione del film: Spielberg, negli stessi giorni in cui veniva girato “Poltergeist” era alla prese con il suo “E.T. - L'extraterrestre” (1982), film che venne girato tra l’altro negli stessi luoghi (addirittura nella stessa strada), e tanto alto era l’interesse della produzione che quest’ultima obbligò Spielberg a firmare una clausola contrattuale che gli proibiva di dirigere altri film mentre erano in corso le riprese di “E.T.”. La leggenda vuole però che Spielberg riuscì ad aggirare il contratto con la complicità di Tobe Hooper ma, nonostante alcuni membri del cast (tra cui l’attrice Zelda Rubinstein) ammisero in più di un’occasione che fu Spielberg in realtà a dirigerli, la cosa non venne mai provata.E pensare che basterebbe guardare con attenzione “Poltergeist” per trovarne le prove (ok, forse non proprio le prove, ma sicuramente ulteriori indizi)… basti banalmente pensare a come vengono rappresentate le entità che infestano l’abitazione della famiglia Freeling, entità fatte di luce, proprio come gli alieni di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (1977) o come le forze ultraterrene che si scatenano nel finale de “I predatori dell’arca perduta” (1981). Ma non è solo questo: uno dei più inequivocabili marchi di fabbrica di Spielberg si manifesta verso la fine di Poltergeist, nella scena in cui la madre della piccola Carol Ann si precipita lungo un corridoio che, improvvisamente, come in un sogno, appare allungarsi. Si tratta di una tecnica di ripresa che gli addetti ai lavori chiamano “Effetto Vertigo”, dal titolo originale del film di Hitchcock in cui apparve per la prima volta (La donna che visse due volte, 1958).
Oggi sono diversi i registi che si divertono ad applicare l’effetto Vertigo, ma trent’anni fa solo un paio di grandi potevano vantare l’utilizzo di tale tecnica nei propri film: uno era naturalmente Alfred Hitchcock, che la usò anche in “Psycho” (1960) e in “Marnie” (1964), l’altro era guarda caso proprio Steven Spielberg! Anche se non è semplice riconoscerla, la scena del corridoio di Poltergeist è infatti esattamente identica ad una delle più celebri inquadrature de “Lo squalo” (Jaws, 1972), quella dell’espressione sconcertata di Roy Scheider durante il primo attacco dello squalo. In entrambe le scene il regista effettua simultaneamente una zoomata all’indietro e uno spostamento in avanti del carrello, provocando nello spettatore un senso di vertigine (l’effetto Vertigo, appunto). Oggi, grazie alle nuove tecnologie, l’effetto Vertigo è molto più semplice da realizzare, ma trent’anni fa c’era anche il problema di gestire manualmente la messa a fuoco, per cui il regista si trovava nella condizione di dover compiere tre operazioni contemporaneamente.Nel breve filmato che ho inserito qui di seguito potete constatare con i vostri occhi quello che intendo (si possono riconoscere, nell’ordine, le due scene estratte da "Lo squalo" e da "Poltergeist").
Che dire del film? La storia, che credo sia nota a tutti, è quella della famiglia Freeling, composta da Steve e Diane, con i loro tre figli, Dana, Robbie e la piccola Carol Anne. La loro serena esistenza viene turbata una notte, quando Carol Anne viene sorpresa a parlare verso lo schermo del televisore, sintonizzato sul nulla. La frase che la piccola Carol Ann pronuncia in quel frangente è divenuta oggi un pezzo di storia del cinema: “They’re here” (Sono arrivati!). Da quel momento strani fenomeni di natura soprannaturale iniziano a manifestarsi nella loro casa finché, una notte, Carol Anne non viene risucchiata da un vortice luminoso apparso dal nulla e scompare senza lasciare traccia. Quando ormai i familiari disperano di trovarla, la sua voce si fa sentire, appena percettibile, attraverso l'audio del televisore.
Come accennavo in apertura di post, l’elemento scatenante sarebbe stato il luogo stesso dove fu costruita la casa: un ex cimitero dal cui terreno, per questioni di budget, l’impresa costruttrice traslocò le lapidi ma non i cadaveri. Steven Spielberg si ispirò per questa storia al sinistro Cheeseman Park di Denver, un ex cimitero oggi trasformato in parco cittadino. Nei primi anni del Novecento una grossa area del cimitero fu riservata alla sepoltura di criminali, vagabondi e senzatetto e, quando il cimitero traslocò, quei figli di nessuno furono lasciati dov’erano per ragioni economiche. Si dice che migliaia di cadaveri ancora oggi riposino pochi metri sotto le aiuole dove i cittadini di Denver trascorrono serenamente le loro domeniche e che, come è prevedibile in casi come questo, decine di testimoni sarebbero pronti a giurare di aver avvistato le anime senza pace di quei disgraziati aggirarsi nelle notti senza luna.
Non si deve profanare il sonno dei morti, scrissi in apertura di post. Spielberg invece lo fece e, anche lui per questioni di budget, decise di utilizzare dei veri cadaveri per girare lo shot finale. Forse è per questo che “Poltergeist” è passato alla storia anche per essere un “film maledetto”. Poco dopo il termine delle riprese, per esempio, la cattiva sorte toccò l’attrice Dominique Dunne, sorella di Carol Ann nella finzione cinematografica, che venne strangolata a 22 anni dall' ex-fidanzato. Julian Beck morì di cancro allo stomaco durante le riprese del sequel (Poltergeist II - L'altra dimensione, 1986), ma l’avvenimento clou fu senza dubbio la fine della piccola Carol Ann (al secolo Heather O'Rourke) che morì all’età di 12 anni poco prima dell’ultimo ciak del terzo capitolo (Poltergeist III - Ci risiamo, 1988). L’aspetto inquietante è legato ad un poster che, nel primo film, faceva bella mostra di sé nella cameretta della bambina: era un manifesto “fake” di una finale di football americano (il Superbowl XXII), che si sarebbe giocata a San Diego solo quattro anni più tardi. Heather O'Rourke morì di stenosi intestinale proprio a San Diego, poche ore dopo la fine di quella partita.
Un giudizio sul film? Poltergeist è un film che appartiene alla sua epoca e, nel bene e nel male, ne contiene tutti gli stereotipi. Gli anni in cui venne girato erano gli anni in cui il celodurismo americano aveva raggiunto il suo apice estremo: gli ideali erano rappresentati dalla famiglia che, tra una colazione a base di burro d’arachidi e uova strapazzate, trovava il tempo di sconfiggere il male. Il padre, nel momento del bisogno, tirava in dentro la panzetta e buttava in fuori una buona dose di testosterone americano, trovando anche il tempo per prendere coscienza da un libro dal cazzutissimo titolo di “Reagan, the Man the President”. La madre era anche meglio: era lei ad occuparsi dei suoi cuccioli, lottando come una tigre ferita. Poltergeist è un film che oggi ha senso guardare solo per “vedere come eravamo” e inorridirci. Non è un film horror. Non lo è più. Solo qualche sobbalzo ben dosato e decisamente telefonato. Forse horror lo era un tempo, quando non eravamo ancora fissati con il torture e con il body count. In Poltergeist l’unica vittima è un canarino: tutti gli altri vissero felici e contenti. Non va infine dimenticato che è Poltergeist un film di Spielberg e, come tale, deve essere… come dire… confortante. Nessuno è veramente in pericolo in un film di Spielberg. Tutto è finto e confezionato su misura per il pubblico al quale è rivolto. E il lieto fine è immancabile. Volendo dirla tutta, anche il titolo è completamente fuori luogo: il poltergeist tecnicamente è una variante della telecinesi, un fenomeno psichico che nulla ha a che fare con le entità demoniache che vediamo qui. Se ve lo consiglio? Diciamo che se siete dei cinquantenni in vena di revival, se volete tornare quegli adolescenti che eravate, quando trascorrevate le domeniche pomeriggio al cinema aggrovigliato ad una sbarbata starnazzante, guardatevelo, anzi riguardatevelo. In tutti gli altri casi passate oltre. Grazie a Dio quegli anni sono morti e sepolti.
Questo è tutto per oggi su The Obsidian Mirror, ma le celebrazioni del sessantasettesimo di Steven Spielberg continuano sui seguenti blog:
Duel (1971) su Non c'è paragoneSugarland Express (1974) su Il cinema spiccioLo squalo (1975) su Il bollalmanacco di cinema1941: Allarme a Hollywood (1979) su Director's cultI predatori dell’arca perduta (1981) su Aloha los pescadoresE.T. l’extraterrestre (1982) su Movies ManiacAi confini della realtà (1983) su Il giorno degli zombiIndiana Jones e il tempio maledetto (1984) su Cooking MoviesIl colore viola (1985) su Recensioni ribelliL’impero del sole (1987) su Life Functions TerminatedAlways – Per sempre (1989) su Pensieri CannibaliHook – Capitan Uncino (1991) su Scrivenny 2.0Schindler’s List (1993) su Le maratone di un bradipo cinefiloMinority Report ( 2002) su White RussianProva a prendermi (2002) su Ho voglia di cinemaThe Terminal (2004) su In Central Perk
La guerra dei mondi (2005) su Combinazione casualeMunich (2005) su Cinquecentofilminsieme
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