Magazine Cinema
La trama (con parole mie): siamo in una piccola cittadina dell'Ontario, persi in inverni lunghi e bui, spesso e volentieri da sopportare sotto il peso di continue tormente di neve.In una piccola stazione radio locale lavora Grant Mazzy, un vecchio dj affezionato al Glennfiddich che spesso e volentieri finisce per dire la sua anche quando la stessa non è decisamente richiesta.Nel corso di quello che pare un normalissimo giorno di programmazione, dall'esterno cominciano ad arrivare notizie di una sorta di epidemia che si sta espandendo a macchia d'olio in tutta la città, causando addirittura la mobilitazione dell'esercito e stimolando l'interesse delle grosse emittenti come la BBC: Mazzy, con la produttrice Sydney e la giovane assistente Laurel-Ann, si troverà ad affrontare un virus come non se ne erano mai visti. E soprattutto sentiti.
Sono contento di aver visto Pontypool. Davvero contento.Perchè, una volta tanto, ho la possibilità di chiarire il reale significato delle bottigliate, che spesso e volentieri arrivano neanche fossero le Tre Bufere roboando sulla testa dei registi autori di opere che, fondamentalmente, avrebbero potuto essere e non sono state, ma che, di fatto, sono decisamente migliori rispetto a quelle che si vedono appioppare un solo bicchiere di valutazione.Pontypool, segnalatomi poco tempo fa dal mio fratellino Dembo, è un'opera assolutamente interessante, ricca di spunti e di idee come raramente se ne vedono - almeno di recente - nell'ambito horror, eppure, dall'inizio alla fine, non riesce a convincere appieno, stimolando più che altro nello spettatore la curiosità rispetto a quanto potenziale sarebbero stati in grado di tirare fuori da una materia così Maestri del genere come Romero o Carpenter.Atmosfera anni settanta, ansia da assedio, un mistero che si svela - seppur in modo parecchio macchinoso - rivelando un morbo davvero unico nel suo genere, metafora non solo dell'ambientazione del film ma della nostra società, che vede alla sua base la comunicazione: le carte in regola per un cult vero e proprio - chissà, forse anche non solo di genere - c'erano tutte, così come un ribaltamento dei topoi del genere zombie movie, che dall'azione - seppur rallentata - e dalle allegorie politiche dei suoi claudicanti protagonisti permette un passaggio ai dialoghi - o più propriamente monologhi - fitti ed ubriacanti di Grant Mazzy - uno Steven McHattie in grande spolvero - e ad un film profondamente parlato, eccessivo e sopra le righe come il dj che lo conduce letteralmente dal principio alla conclusione (?), un tipo spigoloso e ruvido che fin dalla trasmissione del mattino è pronto a schiaffarsi un Glennfiddich giusto per darsi la carica - consiglio alcolico: se non l'avete fatto, provatelo: è una bomba -.Eppure Pontypool è tutto tranne una pellicola riuscita: sarà la mancanza di un elemento effettivamente spaventoso - inquietudine ce n'è, e molta, ma nulla che si possa paragonare a Classici come La notte dei morti viventi o anche a titoli "minori" come The fog, giusto per citare di nuovo i due giganti cui si ispira palesemente McDonald -, sarà il gigioneggiare a tratti quasi fastidioso del protagonista, saranno gli elementi grotteschi inseriti - non divertenti quanto il regista vorrebbe fossero -, sarà che il talento dell'uomo dietro la macchina da presa non è certamente quello di una potenziale Palma d'oro, ma il sapore che resta una volta conclusa la visione è quello di una grande - per non dire grandissima - occasione più che sprecata affidata alle mani sbagliate.Idee sulla carta geniali come il resoconto telefonico dell'attacco degli infetti alla clinica da parte dell'inviato dell'emittente esplodono così soltanto una minima parte del loro effettivo potenziale, ridimensionando una pellicola che appare come un cult da videoteca nerd da film anni ottanta quando avrebbe potuto rompere gli argini e diventare qualcosa di decisamente più incisivo come di recente è stato per lavori come The descent di Neil Marshall, Eden Lake di James Watkins e The Woman di Lucky McKee.Certo, le atmosfere di Pontypool sono molto diverse, il gore è praticamente inesistente e i presupposti decisamente più mentali che viscerali: eppure chi ha mai detto che un horror debba inquietare, spaventare o esplodere soltanto grazie a squartamenti e sangue?Non è la parola uno dei nostri strumenti di comunicazione, se non il principale?E non è la mente il vero fulcro su cui fare leva per scatenare le peggiori paure?In questo senso, il lavoro di McDonald scopre un nervo decisamente delicato per ogni spettatore, e lancia una sorta di sfida all'horror in toto ribaltando la necessità di stupire attraverso gli occhi e l'adrenalina per concentrarsi su quello che può fare il nostro cervellino, se stimolato a dovere.Di recente, soltanto Ti West con il suo Innkeepers ha cercato di sperimentare una via alternativa in questo senso, e come per Pontypool, il risultato non è stato incisivo quanto avevo sperato.Ma non occorre fasciarsi troppo la testa.In fondo, ogni nuova strada si apre attraverso sacrifici ed esperimenti che possono anche non essere riusciti al meglio.Si può dire che McDonald si sia dato da fare per essere una sorta di esploratore di quello che potrebbe tornare ad essere un punto di riferimento dell'horror: un'autorialità giocata su testa, società e comunicazione. Una litania invece di un grido. Un assedio invece di una fuga in campo aperto.Sconvolgimento mentale prima di azione fisica.Linguaggio prima di sangue.Un survival politico che antispettacolarizza uno dei generi più spettacolari che esistano.Resta da vedere se la strada imboccata da questi improvvisati nuovi pionieri si rivelerà un tripudio di genialità come fu per i loro più grandi predecessori o un'intricata matassa di noiosi tentativi pseudo intellettuali.
MrFord
"Fiumi di parole
fiumi di parole tra noi
prima o poi ci portano via
ti darò il mio cuore
ti darò il mio cuore se vuoi."Jalisse - "Fiumi di parole" -
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