L'esigenza di semplificare la macchina dello Stato ai vari livelli, eliminando gli organi superflui, devolvendone le funzioni verso l'alto o verso il basso al fine di dare maggiore efficienza al sistema, con un conseguente risparmio di risorse, è un argomento, come sappiamo, molto sentito dall'opinione pubblica, e che ha trovato udienza anche nei programmi della quasi totalità, per non dire tutte, le forze politiche.
Per non fare un discorso generico, mi riferisco a ciò che sta avvenendo a Pordenone. Nell'ottobre dell'anno scorso, il consiglio provinciale è stato eletto dai consiglieri comunali della provincia, stadio intermedio di un processo - dettato da una legge regionale di riforma delle autonomie - che porterà al loro definitivo superamento su tutto il territorio del Friuli Venezia Giulia: le funzioni delle attuali province verranno ripartite tra i livelli comunale, regionale e quello, di nuova introduzione, delle unioni dei comuni. Per la cronaca, a Pordenone è stato eletto presidente della Provincia il sindaco del capoluogo, Pedrotti (centrosinistra), affiancato da due assessori.
Analogo riordino riguarderà probabilmente alcuni organi dell'amministrazione periferica dello Stato, come la prefettura, in predicato di essere soppressa.
Per altri enti pubblici, come la Camera di Commercio e la Fiera, sono in campo progetti di unificazione con la vicina Udine.
Fin qui, a mio parere, tutto bene, soprattutto in termini di coerenza tra il sentire dell'opinione pubblica e le decisioni della politica, verso la semplificazione e il risparmio di denaro pubblico. Inoltre, com'è noto, non è da oggi che si discute sull'utilità di mantenere in vita province e prefetture: il dibattito sulla soppressione delle province data all'Assemblea Costituente (1946-47), ripreso nel 1970 quando furono istituite le Regioni; riguardo le prefetture, istituto di origine napoleonica, tipico di uno Stato fortemente centralizzato, già nel lontano 1944 Luigi Einaudi ne propose la soppressione, e la Lega Nord nel 2014 ne ha fatto oggetto di richiesta di referendum abrogativo.
In realtà, da diverse parti è salita la protesta contro un preteso declassamento che subirebbe Pordenone a seguito della soppressione della Provincia, della prefettura, dell'ipotetica fusione dell'Ente Fiera con quello di Udine, fino a parlare di un preteso "scippo". Chi sono queste "parti"? Si tratta in sostanza di un ceto politico e parapolitico (tra questi, Alvaro Cardin-presidentte della Fiera, Alessandro Ciriani-ex presidente della Provincia, Fratelli d'Italia, Michelangelo Agrusti-presidente di Unindustria Pordenone) che vede progressivamente mancare il terreno sotto i propri piedi, e che per difendersi tira in ballo la "specificità" di Pordenone, le sue industrie, l'alta presenza di cittadini di origine straniera, insomma il proprio campanile, dipingendo un futuro da "colonia" di Udine (1),(2), (3). Di fronte a questi pianti, anche la maggioranza regionale di centrosinistra, con il vicepresidente pordenonese Bolzonello in prima fila, non si sottrae a fare la propria parte, come nel caso dell'opposizione alla soppressione della prefettura, quasi certamente per non lasciare al centrodestra il monopolio della protesta, giusto, forse, per farsi perdonare il superamento delle province regionali.
Si è capito, o almeno io ho capito, che criticare la pesantezza dello Stato, le sue inefficienze, va bene fino a quando ciò non si realizza (pur tra tante contraddizioni), perché quando si inizia a semplificare c'è sempre qualcuno che, tirando in ballo la perdita dell'identità di un territorio, in effetti vuole solo "salvare" la propria rendita di posizione. É un meccanismo, questo, che genera l'immobilismo, cioè quella malattia che tutta la classe dirigente, a parole, combatte, ma solo fino a quando non si sia trovata la medicina per guarirla, perché proprio in quel momento la giostra riprende e, come nel gioco dell'oca, si ritorna alla casella di partenza.