Porte aperte

Creato il 01 gennaio 2015 da Paperottolo37 @RecensioniLibra

Leonardo Sciascia e la vicenda del piccolo giudice

Siamo nella Sicilia degli anni Trenta. In Italia vige il Regime fascista e in Spagna è in corso la Guerra Civile quando in Sicilia si sta per celebrare un processo che vede come imputato un uomo accusato di tre omicidi premeditati. Le vittime sono state la moglie dell’omicida, il suo ex datore di lavoro e l’impiegato che gli era subentrato. Sembra essere un processo già cotto e mangiato, un processo nel quale la condanna sembra già scritta; una condanna alla pena capitale. Troppo chiare le colpe e troppo pressanti gli interessi, tanto della corporazione, quella degli avvocati, alla quale l’ex datore di lavoro della vittima apparteneva, quanto dello stesso Regime che aveva interesse a confermare di essere in grado di mantenere l’ordine, per potersi dare il caso che l’imputato riesca ad aver salva la vita.

Nonostante tutte queste considerazioni però un piccolo giudice, è lo stesso Leonardo Sciascia ad utilizzare questa espressione nel parlare di lui nel corso del romanzo “Porte aperte“, riuscirà a fare in modo che l’imputato esca dal processo nel quale egli è giudice a latere, condannato sì ma non con una condanna alla pena capitale. Questo non per una sorta di compassione per l’imputato il quale essendo un pluriomicida compassione non poteva suscitarne, ma bensì per un amore per la vita e per la convinzione di non avere il diritto, seppure la Legge tale diritto sulla carta glielo conferiva, di poter disporre della vita di quell’uomo. Un condanna a morte, sia pure metaforica in questo caso, il processo ed il suo esito la sortiranno. Si tratta della condanna alla morte civile e professionale del piccolo giudice il quale, proprio per aver agito in coscienza, si giocherà quella che sarebbe stata una brillante carriera in magistratura.

Nel romanzo “Porte aperte” come già in altri suoi romanzi Leonardo Sciascia usa la storia narrata, che, anche in questo caso, attinge da una vicenda reale, per comporre una sottile e tagliente satire sociale e di costume. Ad esser messi alla berlina qui sono gli ominicchi e i quaqquaraqquà, per usare due termini che compaiono in un altro bel romanzo dello stesso Leonardo Sciascia, vale a dire “Il giorno della civetta“, che, pur professandosi fascisti ed indossando, come fanno i giurati del processo al mostro di Palermo, il distintivo fascista, lo fanno, non per una convinzione, oserei direi una fede, certa ed indefettibile, ma solo per calcolo e tornaconto. Quanto al titolo del romanzo, le porte aperte sono la metafora della sicurezza che il Regime aveva dato a livello di, per utilizzare un’espressione di questi giorni, controllo del territorio sia, anche, per indicare, stavolta interpretate al singolare, in un caso l’unica porta aperta rimasta al pluriomicida una volta completata la propria ferale missione, vale a dire quella del suicidio, suicidio che lo stesso pluriomicida aveva premeditato di compiere ma che poi non aveva potuto compiere in quanto prontamente arrestato ed in secondo luogo, la porta aperta del Brennero che l’alleanza di Mussolini con Hitler aveva creato e spalancato, addirittura, al pericolo, poi rivelatosi quanto mai reale, delle scorrerie tedesche in Italia.

Un romanzo da leggere e meditare che è in grado di fornire parecchi spunti di riflessioni che risultano quanto mai attuali, una storia che conferma, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, la straordinaria vena di narratore e fustigatore degli italici malvezzi e delle italiche ipocrisie di Leonardo Sciascia.



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