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Il villaggio di Sant'Imbenia, polo di attrazione per i commerci
di Marco Rendeli
E' in corso la rassegna organizzata dall'Associazione Italia Nostra Onlus, che vede la partecipazione di alcuni archeologi su temi riguardanti porti e approdi antichi nell'isola (vedi locandina nell'immagine). Ho assistito ai primi incontri e ho pensato di regalare ai lettori che non sono potuti intervenire, la sbobinatura delle relazioni, scusandomi fin da ora per la presenza di qualche piccolo errore, dovuto a mia imperizia per la difficoltà di trasformare il "file" registrato in "file" leggibile.
La Nurra meridionale è una zona difficile per attracchi e ormeggi, ma esiste un ampio golfo protetto dai venti dominanti da settentrione, soprattutto il maestrale, che offre ricovero a imbarcazioni grandi e piccole. Ancora fino a pochi secoli fa, il porto di Alghero era situato nella rada di Porto Conte. Gli altri approdi della zona sono piccoli e non sufficienti ad accogliere navi di una certa stazza. L’approdo naturale del golfo di Porto Conte si trova nella parte più interna ed è un punto privilegiato perché si trova a contatto con l’entroterra ricco e fertile, dove la tradizione vitivinicola e olearia, insieme alla produzione cerealicola, garantiscono un buon livello di vita da vari millenni. Esiste da qualche anno un progetto che vede la collaborazione di vari enti: la soprintendenza per i beni archeologici di Sassari e Nuoro, le università di Sassari e Cambridge, il comune di Alghero. Hanno preso l’onere e l’onore di riportare alla ribalta il villaggio nuragico di Sant’Imbenia che sorge presso l’omonimo nuraghe, già scavato dal 1982 al 1997 e che per molti aspetti è più famoso all’estero perché è uno dei punti in cui, tra la fine del IX e il VII a.C., ci fu un interscambio economico, culturale e tecnologico tra le componenti indigene nuragiche e i mercanti che arrivavano dal vicino Oriente e dal mondo greco. In quei secoli ci fu il moltiplicarsi delle colonie fenicie e greche in Occidente, e il fiorire del mondo di Creta e delle isole egee (Rodi, Samo…). Il triangolo fra Atene, Eubea e la Beozia meridionale offre una buona quantità di rinvenimenti che attestano fin dal X a.C. questo legame fra mondo ellenico e mondo orientale. C’è anche un insieme di tradizioni mitiche e semimitiche che porterà alla diffusione dell’alfabeto fenicio a partire proprio da quelle zone.
Il progetto è stato pensato come una sorta di palestra in cui i principali protagonisti debbano essere gli studenti. Tutta la filiera, dalla preparazione dello scavo fino allo studio e alla pubblicazione dei materiali, per finire con la valorizzazione del sito, è portata all’attenzione sia degli archeologi che del grande pubblico e, anno dopo anno, è cresciuto il numero degli studenti coinvolti in questo “work in progress”. In alcune date è prevista una giornata di apertura per la popolazione residente, così da mostrare i progressi del progetto. È una “Torre di Babele” linguistica, visto che fra le varie lingue che si parlano nel sito troviamo italiano, sardo, inglese, francese, spagnolo…ma l’entusiasmo che coinvolge i partecipanti crea i presupposti per superare le difficoltà.
La baia di Porto Conte si trova in una zona paludosa, con molta acqua e senza pietre. Non ci sono cave e probabilmente non c’era legna, per cui ci troviamo in un luogo dove tutti i materiali da costruzione sono stati portati da diversi chilometri di distanza. Questa dislocazione, che potrebbe apparire non idonea per un abitato, è in realtà particolarmente favorevole perché mette in contatto un entroterra ricchissimo con il mare e, quindi, con quello che, fino all’avvento dei mezzi a vapore, era il mezzo più veloce per il trasporto nel mondo antico.
Gli studiosi dell’Università di Cambridge sono arrivati con macchinari sofisticati e hanno fatto diversi tentativi con la resistività elettrica, con l’elettromagnetismo e altre tecnologie all’avanguardia, mettendo in luce varie strutture molto interessanti. Rispetto ai vecchi scavi a circa 35 metri dal nuraghe, che presentavano due zone distanti circa 100 metri tra loro e apparentemente prive di tracce, è stato individuato un canale che probabilmente fu utilizzato per bonificare l’area dalla ingente quantità d’acqua che rendeva problematico un progetto di costruzione nel sito. Questo canale segnava i limiti dell’abitato e rendeva asciutto il terreno circostante. Le indagini hanno evidenziato un muro che offriva una protezione alla zona più vicina al nuraghe, il cuore del sito. Attraverso i vecchi scavi degli anni Ottanta, è stato individuato il settore a nord del monotorre, con il bastione polilobato che lo cinge. Tutto il materiale da costruzione arriva da aree distanti fino a 2 chilometri di distanza. Un saggio in profondità ha evidenziato una frequentazione del XIV a.C. Per circa 450 anni, questo piccolo nuraghe, con l’abitato intorno formato da capanne circolari, vive una sua vita tranquilla ai margini del ricco territorio circostante. La posizione era favorevole per avere straordinarie riserve di pesce e sviluppare un commercio del pescato con i villaggi che sorgevano nelle zone più arretrate.
Una capanna con bacile, su cui ancora oggi si discute per l’attribuzione della funzione, era certamente uno degli edifici più importanti. L’ipotesi più accreditata è stata fatta da Maria Ausilia Fadda, che la propone come struttura sacra destinata alla celebrazione di riti cerimoniali legati alla religione. Queste capanne mostrano spesso più vani, dedicati alla panificazione, o a riti che uniscono l’acqua con il fuoco Ma visto che vicino a queste capanne si trova sempre una risorsa idrica, dei focolari e dei forni, si è pensato anche ad una sorta di sauna, o a delle terme dove poter acquisire calore molto umido per sudare. Un’altra capanna rotonda poco distante, è simile per dimensioni a tutte le altre trovate in Sardegna, ossia circa 6 metri quadrati e, come le altre, mostra un bacile per l’acqua e forme decorative, come nicchie o altro, che certamente avevano un loro ben preciso significato, come ad esempio inserire degli oggetti sacri o bronzetti. Spesso si individuano delle canalette, servite da bacini che avevano la presa d’acqua in pozzi di acqua dolce posti nelle vicinanze.
Nella palude c’era l’incontro fra le acque salate del mare e le acque dolci che arrivavano dai corsi che scendevano nella zona, quindi mediamente l’acqua era salmastra, invece in questi pozzi sono state fatte le analisi e l’acqua è risultata dolce e bevibile. Uno dei punti più importanti dello scavo limitrofo al nuraghe è una capanna circolare, denominata “la capanna dei ripostigli”. È l’unica sopravvissuta all’interno dell’abitato come non parte di edifici complessi. Il pavimento è lastricato, e vicino alla vasca c’era un ripostiglio di 43 kg di rame in panelle, posto dentro un’anfora interpretata come fenicia coloniale della metà dell’VIII a.C. L’anfora era nascosta sotto l’acciottolato, per cui si decise di scavare lo strato contenente l’anfora, e si arrivò ad un secondo battuto pavimentale. Questo era privo di acciottolato, e al di sotto è stata trovata un’altra anfora di produzione indigena, influenzata dai modelli di anfore da trasporto cananee, contenente altri 42 kg di panelle in rame. Il secondo pavimento era provvisto di una canaletta per l’acqua, e vi erano tracce di un forno. Lo scavo dello strato di riempimento per creare il pavimento più recente ha restituito una serie di ceramiche straordinarie provenienti dal mondo greco e levantino. Tutti materiali che si riferiscono alla fase coloniale in Sardegna. Siamo di fronte ad un sito facente parte di quel dispiegamento di traffici e commerci, come Huelva in Spagna e altri siti in Andalusia, Creta e tutti quegli altri approdi riferibili a circa un secolo prima della colonizzazione, ossia databili alla prima metà del IX a.C. Nella zona di Porto Conte, miniere di rame, di argento e di ferro sono presenti a meno di 20 km di distanza, ossia una giornata di cammino. Ci riferiamo ad Argentiera, Canaglia e Alghero-Cala Bona. Grazie a questi rinvenimenti, di poco precedenti il IX a.C., abbiamo capito che il sito aveva un bacino di approvvigionamento vasto circa 20 km di raggio. È evidente anche che l’attività di integrazione fra mondo indigeno e mondi “altri” è continuativa e prosegue fino a tutto il VII a.C.
Porto Conte diventa un luogo privilegiato prima delle marinerie orientali e poi per gruppi che provengono dalle zone già strutturate come colonie, ad esempio la penisola iberica, Pitecusa-Ischia, il nord Africa e altri siti sardi. Nel sito sono state scavate anche una ceramica con iscrizione fenicia e una con iscrizione filistea, oltre un’imitazione di un sigillo orientale realizzato in ceramica locale, e due vaghi in vetro soffiato e lavorato inciso per creare una decorazione. Altri manufatti dell’Età del Ferro evidenziano la ricchezza della produzione e delle morfologie, ad esempio alcune tazze carenate tipiche di Sant’Imbenia. Dall’analisi delle ceramiche si è scoperto che fra i manufatti del X e quelli del IX a.C. c’è un’evidente miglioramento della tecnologia di produzione, con argille migliori, digrassanti, inclusi differenti (silicei anziché calciti), cambiano le temperature di cottura (da 750° si passa ai 1000°) e si riducono gli spessori. Compaiono superfici levigatissime e di colore rosso brillante. Sono ceramiche che appartengono al patrimonio sardo che si è arricchito delle esperienze orientali. Probabilmente nel sito vengono ospitati degli artigiani orientali che insegnano ai locali nuovi modi per produrre la ceramica.
Nel 2007 è iniziata una campagna di scavo nell’ampia zona intermedia fra gli scavi degli anni Ottanta. La tecnica utilizzata era differente: anziché quadrati di 5x5m è stato fatto uno scavo in estensione per circa 400 metri quadrati. Lo scavo ha cambiato l’aspetto del sito perché proprio nella zona dove apparentemente non doveva esserci niente, è stato trovato un ampio spazio che catalizza intorno a sé tutta una serie di ambienti aperti che si affacciano sull’area aperta, e altri ambienti chiusi ma anch’essi collegati allo spazio aperto, recintato da un muro che ha un ingresso principale con un andito e una serie di altri piccoli ingressi verso vani aperti e chiusi.
Questo modello progettuale è sardo, in quanto non abbiamo tipologie simili in altri siti mediterranei di quel periodo. Architettura e modelli edilizi domestici simili, a cavallo fra Bronzo e Ferro, li troviamo a Gonnesa-Seruci, a Serra Orrios, a Barumini, Santa Vittoria di Serri…Sono gruppi di abitazioni con uno spazio aperto, un corridoio e vani chiusi disposti intorno. In alcuni casi si nota la presenza di camere con bacili e sedili, forse luoghi religiosi per praticare un culto domestico. Finisce il tempo delle grandi capanne circolari monovano, e queste capanne vengono rimodulate. Vanno a far parte di complessi più articolati che racchiudono più capanne circolari e rendono l’unità abitativa più ampia, consentendo di praticare tutte le fasi della vita giornaliera in questi spazi aperti interni.
Un altro caso è quello di Oliena, Sa Sedda ‘e Sos Carros, dove all’interno di un abitato si costruisce un settore conformato in questa maniera che diventa la zona santuariale del villaggio: un ingresso, uno spazio aperto su cui si affacciano vani chiusi, una capanna particolare con bacile e protomi d’ariete poste in alto che fanno da sbocco per l’acqua che finisce all’interno del bacile. Nel sito ci sono anche dei bacini lustrali all’aperto situati nella zona più alta del sito. A Oliena la grandezza dello spazio aperto è di 5x3 metri circa, ma a Sant’Imbenia si raggiungono i 15x8 metri. Assistiamo dunque ad una sorta di esplosione di un modello edilizio privato o sacro, che diventa spazio comunitario, pubblico. Ogni struttura appartiene ad un nucleo familiare, ma l’ampio spazio di Sant’Imbenia ci suggerisce che non si tratta di spazi destinati a famiglie ma di una zona comunitaria destinata allo scambio. Dovrebbe essere una piazza del mercato su cui si affacciano botteghe, zone produttive e case di rappresentanza dei gruppi che dal territorio circostante convergono a Sant’Imbenia per fare lo scambio. All’interno della piazza si trova un antico pozzo di vecchio tipo con le scale a scendere, che viene trasformato durante l’allestimento della piazza stessa in semplice pozzo ad uso della comunità e dei commercianti. Una delle botteghe conteneva una lastra circolare di scisto che copriva un vaso rossiccio nuragico, uno ziro, che aveva al suo interno pannelle di rame, asce semplici e ricurve, e l’immanicatura di una spada tipo Monte Sa Idda, prodotta probabilmente nella penisola iberica. Il vaso è posto in uno strato datato alla prima metà dell’VIII a.C.
Questo spazio collettivo è importante perché aliena degli spazi che prima erano privati. Il villaggio viene quindi modificato togliendo ai privati il possesso di alcune capanne e risistemando tutta la parte centrale dell’insediamento. C’è un programma urbanistico nuovo che nella seconda metà del IX a.C. viene concepito e realizzato, e tutte le famiglie che fanno capo al sito decidono di alienare spazi privati per destinarli ad una grande piazza del mercato. Evidentemente i mercanti dei vari gruppi del territorio e quelli provenienti dall’esterno, sentono l’esigenza di ampliare i commerci e le comunità adeguano i villaggi a questa richiesta. C’è da considerare che il vino di Sant’Imbenia era certamente di ottima qualità e ricercato visto che le anfore di Sant’Imbenia sono state trovate in Etruria, a Cartagine e nella Spagna meridionale. La produzione che fino a quel momento era stata di soddisfacimento della richiesta interna, aumentò notevolmente, creando eccedenze da destinare al commercio con l’esterno. Iniziano delle forme di specializzazione, ad esempio la vite viene lavorata in maniera da sfruttare al massimo la produttività. Si creano dei contenitori ceramici più capienti e tecnologicamente meglio rifiniti. C’è un cambiamento di mentalità nel territorio vicino al sito e i metalli vengono utilizzati sia per produrre utensili sia come moneta di scambio. In questa fase si inserisce anche un altro spazio comunitario: la capanna delle riunioni.
I villaggi contengono dunque nuovi edifici, ma mantengono il nuraghe come simbolo che funge da ombrello protettivo delle attività, pubbliche o private esse siano. Tutti i rappresentanti del territorio e i mercanti provenienti dal mare si riunivano nelle grandi capanne per sancire dei patti e per scambiarsi dei doni.
Il mondo di Sant’Imbenia esportava nel Mediterraneo, dalla Spagna all’Etruria, dall’Africa settentrionale al mondo greco, al mondo egeo e a quello vicino orientale, soprattutto siriano. È verosimile che a Sant’Imbenia e in altri siti del Mediterraneo, avvenne nel IX a.C. un piccolo miracolo: iniziò un percorso di trasformazione che portò l’organizzazione della società in qualcosa di più articolato che rispondeva agli imput esterni. La società di Sant’Imbenia non si fermò nel sito, ma investì un territorio molto più ampio che comprende tutta la Nurra, dall’Argentiera a Canaglia a Cala Bona. Si formò un bacino che divenne una forma di organizzazione funzionale ad un centro, Sant’Imbenia, che si può configurare a metà strada fra una comunità che sorge in quel sito per lo scambio, ma si sviluppa come piccola capitale di un sistema di popolamento che lavora per Sant’Imbenia. Una prova di ciò sono i bronzetti levantini che vengono trovati in villaggi e nuraghe posti nel territorio, ad esempio a Fluminelongu, vicino all’aeroporto di Fertilia, ma anche in luoghi più lontani, come i siti vicini alle miniere di Cala Bona. Metalli, vino, pelli, olio, e tutta una serie di prodotti derivati, concentrati in questa area che consente i contatti fra più genti. Questi scambi favorirono l’integrazione e la crescita delle forme di vita quotidiana e di acquisizione di ricchezza e il tutto avvenne in mezzo ad una palude.
Le immagini sono di www.panoramio.com e di www.alghero.tv
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