“Munio, come tutti quelli della sua generazione, applicava all’architettura la nozione di modestia, di ritegno. L’obbedienza a un progetto collettivo, che è anche questa la tradizione del bauhaus. E non solo degli edifici ortogonali”. Amos Gitai a proposito di Lullaby to my father
Visioni parallele, cercate, contese al tempo e ai colleghi. Rubate. Amos Gitai è stata la mia prima fuga veneziana, il ricongiungimento ad un underground cinefilo mia sola e vera casa visiva. Un underground che rimarca, ogni volta, la mancanza di direzione del cinema destinato ai più, oggi. Un vuoto di contenuti e forma che lascia scorrere tutto appena in superficie. Non rimane niente di impresso, nulla si ferma realmente né per l’occhio né per la testa e/o il cuore. Ripetizioni, ricicli sterili. Minimalismi ridondanti e vuoti. Destrutturazioni incerte, sghembe, shock inesistenti, nulla di realmente devastante-destabilizzante o brillante-estatico. Tanta noia. A parte pochissimi autori, i soliti noti che non hanno granchè stupito (tra i veri maestri che possono permettersi di presentarsi al pubblico ‘vasto’ della Selezione Ufficiale, molto povera di reali scoperte, nella ‘rinnovata’ direzione Barberiana), e una giovane perla (Brillante Mendoza), il cinema contemporaneo pare incapace di comunicare un novus, anche solo formale. Allora scappo alla Sala Pasinetti incontro ad Amos Gitai, circondata da francesi (i più). Non siamo in tanti ad aspettare che la piccola saletta apra le sue porte. E mentre aspetto, naturalmente arriva Enrico Ghezzi… Lo guardo da lontano, e sono contenta di constatare che lui c’è sempre, insieme agli autori che mi ha fatto conoscere e al mondo in cui mi ha fatto entrare. Mi ha insegnato a guardare e ad assorbire un cinema sempre all’altezza di attenzione, anche quando disturba, sfianca, e sbaraglia gli occhi e i sensi, irrita. Ma forma, (allena e abitua) l’occhio, lo sfida, gli insegna a distinguere chi tocca, sfiora, inganna, chi raggiunge la vita e l’arte. Ora ci sono anch’io tra quelli che aspettano e guardano. Lullaby to my father (2012) è la seconda porzione di un binomio visivo che Gitai dedica, rispettivamente, a sua madre (Efratia con Carmel, 2009) e a suo padre (Munio Weinraub Gitai) .
“Immaginiamo che adesso io cominci a lavorare a un film, sulla biografia sulla geografia, e sulla geometria dell’architettura…” Gitai, che pareva incuneato professionalmente e creativamente nella scia lasciata dal padre, raccoglie al suo fianco il cinema a 23 anni, dentro la guerra del Kippur.: “Vengo da una famiglia in cui il cinema non era considerato una grande arte… Durante la guerra del Kippur il mio elicottero fu colpito. Il mio compagno che era seduto a circa un metro e mezzo da me fu decapitato da un missile siriano, che penetrò il nostro elicottero… Mi venne detto nel linguaggio molto asciutto dell’esercito…che, statisticamente, il fatto che fossi vivo, era considerato un’eccezione…Allora decisi di sfruttare questo errore statistico e di dire un paio di cose che avevo dentro e che mi turbavano. “
E dalla super 8 con cui effettuava le riprese in guerra, Gitai, nei primi documentari in cui si cimenta, affronta la questione ebraico-palestinese con crtiticità ed indipendenza. Bayit (1980), rimanda al generale esproprio subito dai palestinesi attraverso il piccolo caso dei passaggi di proprietà di un’abitazione araba nei dintorni di Gerusalemme. Nonostate il blocco della censura israeliana, due anni dopo realizza durante la guerra del Libano Yoman Sadeh (1982), soffermandosi-concentrandosi sulla violenza del conflitto, e di riflesso, sui dubbi e sui quesiti inevitabilmente aperti nei confronti della politica israeliana. A questo punto è costretto a lasciare il paese.
Emigra negli Stati Uniti, dove, nel 1986 a Berkeley termina gli studi di architettura iniziati ad Haifa. Si trasferisce poi a Parigi, dove dà vita ad Esther (1984), Berlin-Jerusalem (1989), Golem – Lo spirito dell’esilio (1992), la sua trilogia di finzione sull’esilio e sull’emigrazione. Nonostante la perfetta integrazione in Francia, Israele è un richiamo irrinunciabile, e il regista vi ritorna, dopo una decisione sofferta. L’animus critico non smette di accendersi, dentro un’osservazione ragionata, disincantata, dove la capacità dialettica e plastica della macchina da presa rende la realtà osservata un bassorilievo denso e mobile, fermento vivo e vivido di sovrapposizioni realistico/simboliche in cui la verità, con la fatica della complessità storica e geografica di una vicenda infinita, va districata, afferrata a pezzi, unita come un puzzle. Nel ritorno alle origini familiari, che Amos Gitai soltanto oggi con Carmel e Lullaby to my father affronta in una maturità esistenziale e cinematografica piena, vi è, contenuta (soprattutto), una morphè evoluta, relazione dialogica tra i vari elementi che concorrono a realizzare il racconto/riflessione/biografia messo in atto.
Un cambio di passo fatto di sovrapposizioni, scambi, asincronie tra immagine, fotografie di famiglia, interviste, lettere e letture, messa in scena teatrale, suono, parola, lingua, dentro un lavoro ai confini tra il documentario e la fiction, un alter che ci sposta più avanti, dentro un’immagine capace di esprimere tutta la sua oggettiva forza, potenza di senso e significato, dentro una parola astratta-estraniata-sola eppure indispensabile, legata al visivo da un sostegno inconscio. Gitai attraverso il minimalismo del Bauhaus, l’avvento del Nazismo e la storia di Israele, segue le orme del suo giovane padre Munio (mai fisicamente presente, mai impersonificato dentro un attore), arrivato 18enne da Bilitz via Dessau all’atelier dell’ultimo direttore del Bauhaus, Mies van der Rohe, dopo aver appreso la tecnica del lavoro del legno. La sua permanenza avrà breve durata (appena due anni): il Bauhaus dovrà epurarlo, insieme agli altri ebrei e socialisti, per blandire i nazisti. Munio, nella persecuzione di cui è stato vittima – arrestato, picchiato, processato – riesce ad essere liberato dal padre della sua fidanzata non ebrea, e grazie all’aiuto degli amici, varca la frontiera Svizzera fino a Bâle. Città dove si era tenuto il primo congresso sionista da Herlz, nel 1897, in cui si postulava uno stato ebraico moderno e laico, sognando di trasformare Haifa in una grande città portuale, senza rabbini e militari, ma moderna, simile a quella che Munio cercherà di progettare 40anni dopo, ricostruendo l’industria di Haifa, seguendo l’idea di Herlz di pianificare i kibbutz e i dormitori dei bambini per un’educazione collettiva, per la creazione di un uomo nuovo, vicino al realismo socialista.
Un sogno, che l’avvento della Guerra dei sei giorni distruggerà, momento a partire dal quale Munio (quasi un ‘regalo’ della vita), saprà di essere destinato ad una morte precoce per un’acuta forma di leucemia diagnosticatagli. Salvato dal collaborare con un’architettura (non solo quella) divenuta aggressiva.
Maria Cera
Ps. Carmel è stato messo da parte, per ora. Lavoro meno riuscito, più caustico. Ne scriverò comunque, per risolverlo dentro di me, visto che ancora mi sfugge.
Letture su Amos Gitai
Amos Gitai, a cura di A. Farassino, Mostra Internazionale Riminicinema, Rimini 1989;
The films of Amos Gitai: a montage, ed. P. Willemen, London 1993;
Amos Gitai. Cinema forza di pace, a cura di D. Turco, Recco 2002.
Scritto da Maria Cera il ott 4 2012. Registrato sotto FULL OF GRACE, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione