Questo articolo è antipatico. Siete avvertiti. Se volete leggerlo, fatelo; ma poi non venite a farmi la predica e a dirmi che sono presuntuoso e indisponente. Non è questo in discussione. Anzi, in discussione non c’è niente. Perché ormai tutto si sa, per chi, naturalmente, ha lavorato per sapere. Le parole di Pier Paolo Pasolini, riferite ad altro argomento e altri delitti, vanno bene anche qui. Le faccio mie (a parte la storia dell’intellettuale che mi fa venire la voglia di mettere mano alla pistola, come diceva Lucio Colletti). Dunque: «Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile». Proprio così, parola per parola. Tutto vero, ma riferito a quello che, con definizione comica, si chiama “il mondo della scuola”.
La scuola, la scuola, ancora la scuola. Ieri le proteste, oggi il concorso, già battezzato concorsone: 320mila candidati. Tanto che tra ieri e oggi non è iniziato il concorso vero e proprio, bensì la prova pre-selettiva – come i prefissi telefonici – per sfoltire l’altissimo numero di partecipanti che aspirano a diventare professori (parola che poi viene storpiata nell’insulso e giovanilistico prof che fa schifo solo a sentirlo: il prof, la prof). Non c’è mai stata in Italia tanta attenzione per la scuola. I giornali sono pieni di pagine sulla scuola, per la scuola, con la scuola. I telegiornali alla prima occasione si lanciano sulla notizia di varia disumanità o di cronaca edile: il bullismo, la porno professoressa, il crollo del solaio. I docenti – parola sindacale che è già tutto un programma per capire che tipo di scuola è quella italiana – si organizzano, scioperano, protestano, lottano per sé e per la difesa della “scuola pubblica”. Gli studenti a loro volta scendono in piazza, manifestano – sono circa quarant’anni che la cosa si ripete – per il diritto allo studio, come se qualcuno impedisse loro di studiare. Più cresce l’attenzione per la scuola e più diminuisce la conoscenza della scuola. Nella grande quantità di notizie, dati, numeri e fatti si è definitivamente smarrita non solo l’idea ma persino la domanda “che cos’è la scuola?”.
In Italia si pensa che la scuola serva a dare il posto ai professori, le ferrovie servano a dare il posto ai ferrovieri e le poste ai postini. È un’idea non solo sbagliata, ma mostruosa. Ma è diventata vera, naturale, come la pioggia e le occupazioni delle scuole in autunno, prima di Natale (dopo le feste il fenomeno scompare per riapparire con il nuovo autunno). L’ultimo concorso fu fatto nel 1999-2000. Dopo tredici anni sono in tanti a pensare di fare tredici con la scuola e il suo posto fisso. Il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha detto che «l’occupazione la fanno le imprese, non la pubblica amministrazione». Ma in Italia non è così: qui si pensa che lo Stato sia un datore di lavoro e tra le sue “imprese” per dare lavoro la scuola è la prima con oltre un milione e trecentomila impiegati. Una mostruosità statale sovietica che da sola basta a far capire perché non siamo in grado di selezionare in alcun modo, né con il voto né con le lobby, una classe politica lungimirante e consapevole dei problemi dello Stato e della nazione.
Il concorsone ha un solo obiettivo (lo ha spiegato l’ineffabile ministro Profumo): reclutare insegnanti più giovani dal momento che l’Italia è il Paese con le professoresse e i professori più anziani. L’intenzione è buona, il risultato sarà pessimo. Per due motivi semplici: perché i vincitori di concorso avranno comunque più di quarant’anni e nel giro di un paio di anni ne avranno più di cinquanta (gli anni a scuola si devono contare il doppio perché il processo di incretinimento è più rapido); l’idea che vinto il concorso si vada in cattedra è illusoria, tali e tanti sono i meccanismi burocratici che si devono superare.
Chi parla della scuola non sa nulla di scuola. I professori sono gli unici a saperne qualcosa perché parlano per esperienza. Ma i professori, che sono dei ferrovieri e dei postini, sono anche i peggiori difensori della scuola. Non difendono la scuola, ma il loro posto di lavoro. Da un lato non li condanno, perché le loro condizioni di lavoro sono misere e lo stipendio (anche a parità di ore di lezione) è il più basso in Europa. Inoltre, è del tutto saltato il vecchio patto scellerato – messo in piedi dalla Democrazia cristiana, dal Pci e dal sindacato – su cui si è retta per molti anni l’insegnamento: fai poco, ti pago poco. Oggi gli insegnanti sono impegnati a scuola per molte ore oltre le ore d’insegnamento, ma con un doppio danno: lo stipendio è sempre basso e il lavoro che svolgono è pura inutilità burocratica. Dall’altro lato, però – ossia quello della conoscenza dell’idea di scuola e della storia della scuola italiana – li condanno perché non sanno fare altro che ripetere come una litania che la scuola pubblica non si tocca e non si avvedono che il riscatto della loro dignità di insegnanti – persino come insegnanti di Stato – dipende unicamente dalla loro capacità di rivendicare la libertà dell’insegnamento.
Dunque, via il monopolio, via il valore legale del titolo di studio, via gli esami di Stato scolastici, via le graduatorie. È una rivoluzione? Va bene, è una rivoluzione. Ma la maggioranza del “corpo docente” non ha forse fatto l’amore per tanto tempo con l’idea della rivoluzione? Siamo in Italia e anche la rivoluzione si adegua: qui la rivoluzione è finita nella rivendicazione del posto fisso ipersindacalizzato. Chi difende la scuola del monopolio difende, da insegnante, la pretesa che la matematica non si fonda sull’intelligenza ma sul Parlamento o la sovranità popolare o il dirigente scolastico. L’esatto contrario della scuola: asservimento.
Le riforme della scuola sono pura fesseria. La scuola non è più riformabile perché è finita. Si è esaurita. L’Italia è tra i Paesi europei quello che maggiormente non ha saputo fare il passaggio dalla scuola d’élite alla scuola di massa. Si è rimasti in un limbo in cui non c’è più la vecchia scuola e non c’è più la nuova scuola. In cambio c’è ogni anno la discussione sulla riforma della scuola. Un manicomio teorico che in autunno con i sindacati e i professori da un lato e gli studenti dall’altro – con nel mezzo i partiti che non ci capiscono niente dell’istruzione e dell’università – diventa un manicomio pratico. Oggi gli affossatori della scuola sono i difensori della scuola pubblica. Non perché disprezzano la scuola privata – che in realtà è la scuola paritaria – ma perché negano a se stessi e al Paese la possibilità che lo Stato possa svolgere un ruolo autorevole nel campo dell’istruzione. Lo Stato deve “fare scuola” solo in due casi: primo quando non c’è nessun altro che la faccia o che garantisca il sale della cultura moderna: critica e scelta; secondo per garantire il diritto allo studio là dove, per condizioni sociali o persino geografiche, non è garantito. Ma affinché lo Stato possa svolgere il suo specifico ruolo non dovrà occuparsi di tutto monopolizzando l’istruzione da capo a piedi con l’uso indebito del valore legale e cartaceo del diploma.
Sulla scuola, con buona pace della tecnologia – che non guasta ma non è la salvezza -, non c’è da inventare nulla di nuovo. C’è solo da capire che la scuola non si fonda sullo Stato, ma sulla libertà. Esistono solo due tipi di scuola: la scuola di Stato e la scuola libera. In Italia c’è la prima che, però, funziona a una sola condizione: che lo Stato non rinunci a essere autorevole e dunque controlli, intervenga, verifichi con rigore. Questo tipo di scuola è finito da molto tempo ed è stato sostituito dalla scuola sindacale in cui lo Stato è ospite a casa sua con l’impegno che non faccia lo Stato rinunciando all’autorevolezza e al rigore. Cosa rimane in piedi della scuola di Stato? Da una parte il posto fisso e dall’altra il diploma: sono le due facce deleterie della stessa medaglia. Il diploma continua a generare l’illusione sociale che a un pezzo di carta corrisponda e debba per legge corrispondere una funzione e un lavoro. Pura illusione, pura demagogia.
Il sistema monopolistico o napoleonico funzionava fino a quando la scuola era per pochi e lo Stato poteva controllare la serietà degli studi e i diplomi erano ancora un modo più o meno valido per allevare su impiegati e dirigenti. Ora tutto questo sistema non funziona più, esattamente come non funziona più un’autostrada la cui superficie è tutta ricoperta dalle automobili che diventano immobili. Così la riforma della scuola napoleonica diventa necessaria sia per ragioni scolastiche sia per ragioni amministrative: lo Stato non può continuare a rivalersi sulla scuola per avere dei burocrati perché ormai non riesce ad avere più né una scuola né una burocrazia.
Di questa realtà si deve prendere atto con grande serietà. Il governo Monti aveva iniziato con il porre la questione del valore legale del titolo di studio e ha finito con il concorsone. Da una parte ha provato a evidenziare le contraddizioni reali e ormai insostenibile del monopolio, dall’altro lo ha esercitato provando a dare nuova credibilità al concorso pubblico. Ma è solo una strada che conduce in un’autostrada bloccata.
La scuola pan-statale – ossia la scuola che ha bisogno essa stessa dell’esistenza dei diplomifici per far funzionare il sistema e dare a tutti un pezzo di carta per perpetuare l’illusione di una opportunità – rende attuale quanto diceva quel pazzo di Papini: chiudiamo le scuole. Tutte le scuole. Lo Stato mantiene le scuole perché le famiglie non sanno dove mandare i figli, i professori non sanno dove battere la testa e perché lo stesso Stato ha bisogno – ma ora non più – di un manipolo di impiegati che tira su con certificati che egli stesso stampa e distribuisce come cartamoneta fuoricorso. Si chiudano tutte le scuole e «non venite fuori colla grossa artiglieria delle rettorica progressista: le ragioni della civiltà, la educazione dello spirito, l’avanzamento del sapere». Ancora: «Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano».
Non c’è altra strada da seguire. Chiudiamo tutte le scuole. Per almeno tre anni. Poi una a una si riapriranno, non per lo stipendio degli insegnanti, dei bidelli e dei burocrati, non per l’assistenza familiare, non per il reclutamento statale e parastatale degli impiegati ma sulla base della necessità educativa.
tratto da Liberalquotidiano.it del 18 dicembre 2012