Continuano gli interventi chiesti ad alcuni economisti sui 5 o 6 provvedimenti prioritari per rilanciare la crescita e L’OCCUPAZIONE PRODUTTIVA in Italia. Dopo Pini, Pettenati, Messori, Vera Negri Zamagni, Costabile (prima parte).
Oggi risponde Stefano Zamagni
Prof. ordinario di Economia politica, Univ. di Bologna
Fino all’avvento della globalizzazione e della terza rivoluzione industriale l’ordine produttivo poteva essere rappresentato da una piramide. Alla base c’erano i lavori di routine per i quali non v’era bisogno di alcuna competenza specifica, né di particolari processi formativi. Salendo verso il vertice la stratificazione delle mansioni procedeva in parallelo con l’avanzamento degli studi svolti. Chi arrivava alla laurea aveva la quasi certezza di arrivare ad occupare, prima o poi, una posizione di medio-alto profilo. D’altro canto chi dimostrava di possedere particolari doti e competenze giungeva al vertice della piramide, uno spazio limitato a pochi, giacché le organizzazioni di lavoro non avevano necessità che fossero in molti a pensare in grande e a progettare con lungimiranza. Poiché la conoscenza era prevalentemente di tipo codificato (e non già tacito) era sufficiente collocare poche persone nelle posizioni apicali, le quali si sarebbero poi occupate di tradurre in pratica la celebre regola di F. Taylor “one man, one job” (si pensi alla catena di montaggio).
Oggi la piramide si è trasformata in clessidra. La base inferiore è più o meno la stessa: c’è ancora bisogno di chi deve svolgere compiti standardizzati; affidati in prevalenza agli immigrati. Le differenze tra le due figure riguardano piuttosto, per un verso, i livelli occupazionali intermedi che nella clessidra sono assai pochi, e per l’altro verso, i livelli superiori che, a differenza che nella piramide, sono molti. Il fatto è che il mondo del lavoro tende oggi a privilegiare o i molto esperti e superspecializzati o i gradini bassi della gerarchia lavorativa. Ciò che va riducendosi è la domanda dei livelli intermedi di competenza. Si badi che ciò sta accadendo non solo per il lavoro dipendente, ma anche per quello autonomo (si pensi al mondo delle professioni). Di qui la vistosa perdita di potere – non solo economico – dei ceti medi.
Sono a tutti note le proposte che, vengono avanzate per rimediare alla bisogna. Si va dalle politiche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro alle politiche per creare nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi. Si propone di puntare sull’inserimento giovanile basato sulla formazione professionale e sull’apprendistato; o di equilibrare le garanzie del mercato del lavoro, dove troppo forte sarebbe il divario tra flessibilità temporanea dei giovani e rigidità del lavoro a tempo indeterminato riservato agli adulti. Si suggerisce anche di equilibrare i fondi per gli ammortizzatori sociali e di applicare sgravi e/o crediti fiscali per l’inserimento dei giovani.
Tali proposte e parecchie altre sono valide ma non sufficienti. E ciò per la semplice, ragione che misure del genere si rivolgono agli effetti e non alle cause profonde della disoccupazione e inoccupazione. Né si può pensare che tutti debbano avere le qualità per giungere alla base superiore della clessidra. Se il lavoro è per l’uomo, in quanto fattore costitutivo della sua identità, non si può accettare che solamente i superdotati in senso professionale riescono ad inserirsi nel processo lavorativo. È quando si arriva a comprendere ciò che si è spinti ad osare vie nuove.
Ebbene, l’idea che avanzo è di favorire il trasferimento del lavoro liberato dal settore capitalistico dell’economia – che mai potrà occupare più del 75-80% della forza lavoro – al settore civile dell’economia. In questo settore il lavoro ha proprietà diverse da quelle del lavoro dipendente salariato. Fino a che il fordismo è stato considerato l’unico orizzonte della modernità, il lavoro dipendente salariato era il prototipo del lavoro tout-court. Era inevitabile allora che il lavoro autonomo o para-subordinato o coordinato o associato (si pensi, a quest’ultimo riguardo, al socio-lavoratore di una impresa cooperativa) venissero considerati un’eccezione. Oggi, è vero il contrario. I nuovi lavori, cioè le attività lavorative, stanno surclassando quelli tradizionali, cioè gli impieghi. Le grandi imprese della manifattura storica perdono, anno dopo anno, circa l’1% di occupati, mentre aumentano sempre più i contratti atipici – ma che tra non molto diventeranno tipici. Ecco perché è necessario far decollare un robusto settore di economia civile per assicurare l’assorbimento del lavoro “liberato”. Occorre dire, in tutti i modi possibili, che è il fare impresa la via maestra per creare lavoro. Ma – si badi bene – l’impresa che crea lavoro non è solo quella privata di tipo capitalistico ma anche l’impresa civile (il cui principio regolativo è la reciprocità).
Ciò è possibile a condizione che si travasi la domanda verso i beni nella cui produzione l’economia civile possiede un vantaggio comparato. Alla base del nuovo modello di crescita c’è una specifica domanda di qualità della vita. Ma questa va ben al di là di una mera domanda di beni manifatturieri (o agricoli) “ben fatti”. È piuttosto una domanda di creatività, di cura, di servizio, di cultura, di commons. La qualità non è tanto quella dei prodotti oggetto di consumo, quanto la qualità delle relazioni umane.
Ci sono due condizioni per consentire il riproporzionamento della spesa per consumi tra beni materiali e immateriali, tra merci e beni comuni. La prima chiama in causa la matrice culturale della società, perché il mutamento del paniere dei beni di consumo passa attraverso lo stile di vita, che a sua volta dipende dalla cultura. La seconda condizione è di liberare il mondo dell’imprenditorialità sociale e civile da tutti quei vincoli che ne impediscono l’operatività. Primo, occorre cambiare il Libro I, Titolo II del Codice Civile (che è ancora quello del 1942!). Secondo, si tratta di approntare strumenti finanziari nuovi per finanziare lo sviluppo di imprese sociali e di far nascere le imprese civili. Si pensi ai “social impact bonds”; ai titoli di solidarietà; al crowd-funding; e così via. Terzo, è urgente accelerare il passaggio dal welfare state al welfare society, applicando il principio di sussidiarietà circolare (da non confondersi con la sussidiarietà orizzontale e/o verticale). Si dimostra che il modello di welfare society genera occupabilità, perché interviene sulle capacità di vita delle persone e non semplicemente sulle condizioni di vita delle stesse.