2010: Potiche di Francois Ozon
Presentato con successo al 67° Festival del cinema di Venezia, l’ultima opera di un regista a cui dobbiamo film notevoli ma anche lavori deludenti.
Francois Ozon ci aveva deliziato con 8 donne e un mistero (vero e proprio gioiellino), ci aveva turbato con l’intenso Gocce d’acqua su pietre roventi. Ma ci aveva deluso con il non pienamente convincente Il rifugio. Con Potiche innalza un vero e proprio monumento all’icona per eccellenza del cinema francese: tutto ruota intorno a Catherine Deneuve, continuamente in scena, motore unico della storia raccontata. Fascino e carisma intatti… eppure è proprio lei che non funziona. Alle prese con un ruolo che richiederebbe mille sfaccettature e infinite sfumature, la Deneuve appare palesemente irrigidita e plastificata, monocorde. Non aiutata da una sceneggiatura che non fa evolvere il suo personaggio, l’attrice brilla per staticità e rende questo personaggio (interessante sulla carta) incolore e senza spessore.
Stentiamo a trovare in questo film le qualità che hanno reso famoso il regista quarantenne (“un autore sorprendente -scrive Vincenzo Bevar- in grado di creare strutture e schemi tanto impeccabili esteticamente quanto funzionali sul piano della narrazione”). Il ritmo è buono, qualche battuta rimarchevole (sulla libertà sessuale, sull’autodeterminazione della donna…) non manca, ma il film non decolla e manca di mordente. Forse nelle intenzioni era una rivisitazione moderna della vecchia e gloriosa pochade, forse una rilettura ironica degli anni Settanta (anni tormentati ma portatori di tante novità) e della lotta di classe tipica dell’epoca, forse un omaggio alla sensibilità e alla forza del genere femminile, forse un quadro grottesco della mentalità borghese ancora convinta che comunista e mangiatore di bambini si equivalgano, forse una surreale denuncia -tra il serio e il faceto- della persistente idea della donna-oggetto tanto amata da una società profondamente maschilista… Probabilmente tutto questo e altro ancora ma Potiche fallisce e risulta semplicemente un prodotto a volte piacevole ma sostanzialmente scialbo e banale.
Un film leggero ma superficiale e senza anima che però (a mio parere inspiegabilmente) a molti critici è piaciuto: “Una lezione di cinema e di intelligenza creativa” (Maurizio G. De Bonis), “Una commedia che riconosce il modello del cinema classico e lo rielabora criticamente e nostalgicamente” (Marzia Gandolfi), “Divertentissima e turbinosa commedia” (Il Giornale), “Divertente e acuto, delizioso…” (Cineblog), “Esilarante e grottesco, a metà tra il melo’ e la commedia, tra la leggerezza e l’impegno” (Valentina Domenici), “… molto riuscito, molto divertente” (L’Espresso), “Un film ricco di verve e di spirito” (La Stampa).
p.s.
Un plauso a quanti circondano la «regina» Catherine: Fabrice Luchini è come sempre perfetto; Gérard Depardieu, benché sempre più «stabordante», è talmente bravo da essere massimamente credibile come innamorato e aspirante amante della protagonista; Karin Viard, nella parte della segretaria, offre una lezione di recitazione; Judith Godrèche mostra non solo bellezza ma un notevole talento. Da sottolineare il ruolo insolito per Jérémie Renier, il giovane attore belga che i fratelli Dardenne ci avevano abituato ad ammirare nei fortemente drammatici La promesse, L’enfant, Il matrimonio di Lorna: nella commedia se la cava ma è da preferirsi alle prese con personaggi introversi e problematici.
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