Francamente non ricordo per un album dance un’attesa tanto spasmodica come quella che ha accompagnato nelle ultime settimane l’uscita di Random Access Memories dei Daft Punk. Ma già al primo ascolto si capisce perché, o almeno ti autoconvinci di averlo compreso all’istante. Intanto – facile questa, eh – perché il duo francese mancava dalle scene da un po’. In secondo luogo perché quest’album ne consacra la definitiva maturità e infine perché è poco dance. I Daft Punk, più che in passato, sperimentano sonorità derivanti dal funk e, a brevi tratti, persino dal jazz. Poi c’è molto pop, di quello elettronico che loro sanno fare come pochi al mondo. Però affibbiare a quest’ultima fatica un’etichetta è riduttivo perché i nostri si permettono di buttare nella mischia Nile Rodgers, Giorgio Moroder e Pharrell Williams come se i tre avessero partecipato alle medesime produzioni in altre occasioni. E passi dalla riflessiva Within alla funkeggiante Lose yourself to dance fino alla hit – che spacca di brutto – Get lucky chiedendoti se davvero quello che stai ascoltando è un album dei Daft Punk. E alla fine ti rispondi che sì, è proprio un album dei Daft Punk, perché al momento opportuno il marchio di fabbrica è inconfondibile. Eppure stavolta il miglior pregio è l’essenza di un disco mai scontato, che tra le diverse tracce (13, per la precisione) potresti alternare balli scatenati a momenti di attenzione allo strumento (perché loro la dance la suonano sul serio, come in Touch o in Beyond), pensando che in fondo ne è valsa la pena aspettarli per otto lunghi anni. E che potresti farlo di nuovo nei prossimi dieci, se questo è il risultato.
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Francamente non ricordo per un album dance un’attesa tanto spasmodica come quella che ha accompagnato nelle ultime settimane l’uscita di Random Access Memories dei Daft Punk. Ma già al primo ascolto si capisce perché, o almeno ti autoconvinci di averlo compreso all’istante. Intanto – facile questa, eh – perché il duo francese mancava dalle scene da un po’. In secondo luogo perché quest’album ne consacra la definitiva maturità e infine perché è poco dance. I Daft Punk, più che in passato, sperimentano sonorità derivanti dal funk e, a brevi tratti, persino dal jazz. Poi c’è molto pop, di quello elettronico che loro sanno fare come pochi al mondo. Però affibbiare a quest’ultima fatica un’etichetta è riduttivo perché i nostri si permettono di buttare nella mischia Nile Rodgers, Giorgio Moroder e Pharrell Williams come se i tre avessero partecipato alle medesime produzioni in altre occasioni. E passi dalla riflessiva Within alla funkeggiante Lose yourself to dance fino alla hit – che spacca di brutto – Get lucky chiedendoti se davvero quello che stai ascoltando è un album dei Daft Punk. E alla fine ti rispondi che sì, è proprio un album dei Daft Punk, perché al momento opportuno il marchio di fabbrica è inconfondibile. Eppure stavolta il miglior pregio è l’essenza di un disco mai scontato, che tra le diverse tracce (13, per la precisione) potresti alternare balli scatenati a momenti di attenzione allo strumento (perché loro la dance la suonano sul serio, come in Touch o in Beyond), pensando che in fondo ne è valsa la pena aspettarli per otto lunghi anni. E che potresti farlo di nuovo nei prossimi dieci, se questo è il risultato.
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