L’affaire Ruffini, al di là della legittima soddisfazione di aver visto riconosciuti i diritti di un perseguitato, è l’ennesimo segnale, anche questo preoccupante, che in Italia non solo si riscrivono i percorsi storici ad uso e consumo del “ras” di turno, ma che anche le leggi subiscono una sorta di “personalizzazione” che le rende vuote e spesso inutili. Dopo il reintegro alla direzione di Rai3 di Paolo Ruffini, sancito dal giudice del lavoro, si continuerà a sparare sulla magistratura politicizzata, sulle toghe rosse, sui comunisti inquisitori che manco Beria. Eppure, per tenere lontana la magistratura dalla politica, e dalla vita di tutti i giorni, sarebbe sufficiente non commettere reati e non violare le leggi che sovrintendono una società civile che voglia definirsi tale. C’è da notare che, per il carattere puramente tecnico delle sentenze del giudice del lavoro, gridare alla magistratura politicizzata è un abbaiare alla luna perché con tutta evidenza, la decisione di estromettere Ruffini da Rai3 non è stata dettata da “incapacità” o “demerito” da parte dell’estromesso, ma da una riconosciuta discriminazione politica tradotta in sentenza. Prendiamo il caso di Michele Santoro. In una impresa qualsiasi, una di quelle che pone il profitto al primo posto della sua mission, un funzionario come lui, in grado di produrre introiti superiori di gran lunga alla media e ascolti che tutte le altre trasmissioni della rete messe insieme non raggiungono, sarebbe promosso direttore generale e, in presenza dei Santoro Boys, fatto santo subito. In Rai questo non avviene. Anzi. La Rai, ad esempio, si permette di rinunciare ai 50 milioni di euro di Sky per continuare a trasmettere i suoi canali sul satellite di Murdoch il quale, per colmo della sfiga, continua ad essere vessato dal governo Berlusconi al pari di un pericoloso comunista (concorrente). Mantiene al suo posto un direttore come Minzolini che ha fatto precipitare gli ascolti della testata più importante (e imponente) d’Europa. Concede spazio a un conduttore come Gianluigi Paragone che, a parte qualche leghista ubriaco, dati di ascolto alla mano, non è seguito in tivvù neppure dalla sua famiglia. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito se non bastasse il caso di Parla con me” a completare un quadro desolante. La Rai di questi tempi bui sta diventando esattamente quello che Berlusconi avrebbe voluto fosse da sempre, un succedaneo di Mediaset la quale, non a caso, ne controlla già il palinsesto con Endemol e, tanto per non farsi mancare nulla, gli sta svuotando le casse dimezzandole gli introiti della pubblicità. Parlare ancora una volta del conflitto di interessi non deve apparire né noioso né stucchevole perché tutti i problemi di questa nazione nascono proprio da una legge mai varata e da un’altra che ha “regalato” a Mediaset le frequenze televisive al costo minimo dell’uno per cento del fatturato. La motivazione che accompagnò un cadeau quanto mai bene accetto, fu quella che Mediaset rappresentava una “grande industria culturale”, facendo chiaramente capire cosa intendesse per “cultura” il politico che la pronunciò. Dire ancora che si trattava di Massimo D’Alema e non di Bettino Craxi, vorrebbe significare continuare a sparare sulla Croce Rossa cosa che, in qualche momento, e considerato a chi la si paragona, non rappresenterebbe un grosso guaio, soprattutto a Italiatown.
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