Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.Oggi, sul Corriere, con uno smilzo editoriale dal titolo ginecologico «La dilatazione dello Stato» (non ancora disponibile online sul sito ma reperibile con una semplice ricerchina su google), Piero Ostellino attacca a viso aperto uno dei più importanti articoli della nostra Costituzione. Il terzo, quello sopra riportato, sull'ugualitarismo.
È un articolo molto criticato dal movimento liberale, perché da sempre ritenuto frutto di quel vetero pensiero catto-comunista di cui alcuni autorevoli costituenti erano portavoce. Certo, la nostra Costituzione è frutto di una partitura a più voci escluso, per ovvi motivi, la voce fascista. E meno male.
Personalmente io dell'articolo 3 cambierei soltanto un sostantivo: sostituirei "lavoratori" con uno ancora più basico e fondamentale: "umani". Dato che non tutti in una Repubblica lavorano o, persino, ne sono cittadini (coloro che magari sono in attesa di diventarlo).
Cosa dice in realtà l'articolo 3? Cerco di semplificare. Anche se non amo i paragoni sportivi, al momento non mi soccorrono in aiuto altre similitudini; chiedo venia, dunque, ma permettetemi di paragonare ciò che dice l'articolo a una gara olimpica, prendiamo il caso quella dei cento metri. Ammettendo che nessuno sia dopato, tutti i concorrenti alla gara vivono un momento di iniziale, assoluta, uguaglianza. Tutti partono dallo stesso posto nelle medesime condizioni. Tutti attendono il via e nessuno può partire prima degli altri. Nessuno si sogna di chiedere di partire con un vantaggio; nessuno pretende che qualcun altro parta svantaggiato. Cento metri, pronti, attenti, via. Dieci secondi e qualcuno arriva primo, chi secondo, chi ultimo. Onore e premio al vincitore, ma non disonore e punizione all'ultimo.
Torniamo al nostro articolo 3 e domandiamo all'iper liberale Ostellino: data la situazione ideale dei cento metri, in questi 65 anni di Repubblica c'è stato mai un periodo storico in cui le condizioni del discusso articolo sono state attese? Per fare un esempio bruto: secondo Ostellino manager titolati come Marina Berlusconi e John Elkann* sono ai loro rispettivi posti di comando perché hanno fatto qualche master all'estero e sanno bene la lingua inglese? Sono partiti dal medesimo via degli altri loro concittadini?
Da ultimo, strana poi sembra la qualifica di socialista affibbiata da Ostellino al ministro Tremonti. Tremonti era socialista, come Sacconi; adesso non lo sono più. Sono neocomunitaristi. Costoro – è bene che Ostellino lo sappia – avversano profondamente il principio dell'uguaglianza proposto nell'articolo tre. E lo avversano perché non sono dei veri liberali ma dei neocomunitari, che vedono nell'uguaglianza da garantire costituzionalmente a tutti i cittadini il pericoloso tentativo di rendere i cittadini stessi degli adulti che fuggono le direttive fideistiche del padrone, sia esso Berlusconi oppure – nel caso italiano – il Vaticano.
Ostellino dovrebbe rinnovare le sue letture e volgere lo sguardo anche a recenti saggi di autorevoli politologi contemporanei. Gli propongo qui un passaggio dell'ultimo lavoro di Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino 2010. Agile saggio sulla povertà italiana contemporanea. Una povertà politica prima di tutto. Riporto i tre capoversi finali del libro che non ho potuto fare a meno di leggere a voce alta qui, su questa terrazza vista mare, usando un tono frammisto di indignazione e soddisfazione. Indignazione, per lo stato di cose. Soddisfazione, perché qualcuno ha messo per iscritto queste cose, sotto il sole cocente della conoscenza.
Revelli chiude il saggio parlando della
«relativamente recente torsione in chiave neocomunitaria del discorso neoliberista, sempre più evidedente con l'avanzare della crisi economica e finanziaria. Un neocomunitarismo tutto italiano, declinato sul versante di un riproposto familismo sociale, impreniato sulla centralità delle relazioni primarie (la parentela, appunto, il legame solidaristico a stretto raggio, ridotto al nucleo parentale, chiamato a riempire i vuoti lasciati da una statualità in ritirata). E duramente determinato a imporre, anche qui, con una funambolica piroetta, un modello fai-da-te del “conservatorismo compassionevole” di origine anglosassone, intessuto di “personalismo” alla Cl e di “etica del dono”. Di privatizzazione delle pratiche solidaristiche e di individualizzazione della “cura”, retrocessa da diritto sociale a funzione morale. Si pensi a quante volte, nei più recenti discorsi del ministro dell'Economia Giulio Tremonti […] ritorna la parola “comunità”. O al modo in cui ciò che resta di quello che un tempo si chiamava ministero del Welfare, per volontà del ministro Sacconi, ha affrontato l'anno europeo della lotta alla povertà attraverso l'assolutizzazione del “principio di sussidarietà” e la pressoché esclusiva “Campagna per il dono” sintetizzata nel motto: “aiuta l'Italia che aiuta”.Può apparire bizzarra – in qualche misura espressione di un ossimoro – la convivenza in un medesimo blocco politico, come quello del centro-destra italiano, delle “retoriche del disumano” di stampo leghista e dell'etica del dono neo-comunitaria. Della barbarica distruttività di ogni concepibile legame con l'Altro che sta dietro al primo approccio, e dell'edificante affabulazione sulla relazionalità e sulla solidarietà implicita nel secondo. E tuttavia, a bene guardare, entrambi traggono origine da una medesima radice. O da un comune deficit. Entrambi offrono una risposta deviata (o deviante) a una domanda di riconoscimento disconosciuta. O, meglio, ripropongono – sul vuoto aperto dalla caduta, o quanto meno dall'affievolimento, di quella forma universalistica di “riconoscimento” che era stata la grande famiglia moderna dei diritti – nuove modalità del senso del “sé”, o del “noi”. Nuove accezioni dell' “essere in relazione”, per certi versi rovesciate e opposte rispetto a quella: selettive, laddove i diritti erano universali. Personalizzare, mentre quelli erano astratti. Discrezionali e “concesse” - octroyées, come la costituzione dell'età della Restaurazione –, in contrapposizione a ciò che era stato conquistato con la lotta, e affermato come prerogativa indisponibile.E probabilmente qui – su questo terreno incerto tra moderno, postmoderno e premoderno – che la questione solo apparentemente laterale (o residuale) della povertà e dell'impoverimento si fa materia giuridico-politica cruciale. Tema “costituente”: questione di “forma di governo”. Perché un Paese nel quale una parte consistente della popolazione cessi di considerare diritto pubblicamente garantito la propria aspirazione a una vita degna, finisce inevitabilmente per trasformare il gioco sociale e politico in uno scambio diseguale, tra chi è costretto a chiedere “protezione” e chi, in cambio, pretenderà “fedeltà”: tra chi, “in basso”, sa di dover dipendere dalla disponibilità altrui e chi, “in alto”, sa di poter contare sulla dedizione altrui. Né l'una – la discrezionalità dei potenti – né l'altra – la dedizione dei servi – appartengono allo statuto di ciò che finora è stato inteso come democrazia.»
Ecco cosa ci lasciano in eredità questi anni di Berlusconi e della Lega al governo. Ci lasciano questo servilismo, questo fottuto senso di libertà di fare quel che cazzo gli pare concesso ai potenti e libertà soltanto di servire da parte della massa plaudente dei servi. Il liberare Ostellino è chiamato all'appello per dare una risposta a questo sfacelo.
*Sia chiaro, io non nulla di personale contro tali illustri concittadini. Il caso, la fortuna li ha voluti occupare quei prestigiosi posti di comando. Voglio solo sottolineare che essi non sono lì per merito o perché sanno correre più veloce di altri. E questo Ostellino, quando parla di competizione, dovrebbe ricordarlo.