Come già sapete – e se non lo sapete lo scoprite adesso – al sottoscritto non piace fare le classifiche sull’anno appena trascorso.
Finisce sempre che ti dimentichi qualcosa e, vuoi per la fretta o semplicemente per l’ansia da classifica che ti impone di trovare 10 o almeno 5 artisti-cantanti-band-album-singoli-concerti e quant’altro, succede che in quella lista finiscono anche artistidischicantanti che altrimenti mai ci sarebbero finiti, là dentro.
E forse, se avessi fatto i compiti per tempo, avrei potuto stilare una lista degna di tal nome.
Ma così non è stato.
Quindi anche questa volta mi esimerò dal fare una lista del meglio dello scorso anno.
E poi, alla fine, chi se la sarebbe cagata?
Invece di pensare a quante belle cose ci sono state o, piuttosto, a quante ce ne sono state di brutte, mi soffermerò su un’unica cosa. Una che, però, è riuscita ad infastidirmi sufficientemente. Da sola.
Ed ecco, questa cosa di cui sto cercando di parlare da un po’ è “Poveri Cristi”, il secondo album del calabresissimo Brunori SAS. Quello di “Guardia 82” e delle canzonette da italian dandy che avevano fatto pensare ad un nuovo cantautore in stile DenteGaetano. Chissà perché, poi.
Già allora non mi aveva convinto troppo.
E comunque, nel 2011 è uscita la seconda fatica di Dario Brunori.
Poveri Cristi, per l’appunto.
E, ad essere sincero, non è tutto da buttare: la maggior parte delle melodie sono orecchiabili.
Ma non sono qui a parlare di melodie, ora.
Ciò che questiono è l’insieme. Il sostrato. Il mood. L’idea di fondo di Poveri Cristi.
Un leitmotiv di sfiga, di vittime di un destino infame un po’ Malavoglia un po’ Fantozzi.
Ci sono, qui, tanti poveri cristi.
C’è quello che si fa il mazzo per una promessa sposa un po’ troia, che alla fine preferisce un altro. E lo stronzo non si ammazza soltanto di lavoro: emigra, sottoscrive cambiali, perde una mano. Per prendersela nel culo.
C’è anche quello malato di gioco, che spende tutto nella speranza di comprare un grande televisore visto al centro commerciale, si indebita e vive una vita di merda.
E, insomma, quello che Dario racconta è successo e succede.
Ma non è questo il punto.
È che tutto, dico tutto quello che viene raccontato in queste storie sa di marcio.
Di finto, di forzato, di cliché.
Ci sono tanti, troppi stereotipi. Che ricordano un po’ le forzature di una voce che finge di essere più roca del normale, solo perché fa figo così. E magari aiuta anche a rimediare un po’ di figa.
E probabilmente, Dario, tu sei davvero un Povero Cristo. Una persona apposto. Uno tranquillo, come ci si aspetta. Ma dimmi una cosa: la figa si rimedia?
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