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Povertà e «social innovation» nel quartiere Sant’Alberto di Trapani

Da Agueci

La proposta: come avere più orti e maggiore cooperazione per il benessere di tutti

«A Trapani la povertà ci tocca da vicino, all’interno dei nostri quartieri, delle nostre case, delle nostre aziende».

È la dichiarazione fatta dalla prof.ssa Ignazia Bartholini e dalla dott.ssa Maria Cipponeri in seguito a un’indagine svolta nel quartiere Sant’Alberto. Il rione popolare, che conta circa 10 mila abitanti, è lo specchio di un disagio diffuso. «La situazione generale nel quartiere è, infatti, - dicono le ricercatrici - caratterizzata da famiglie monoreddito e spesso da lavoro precario dato da disoccupazione, lavoro in nero, cassa integrazione, lavoro da volontariato, con diverse persone a carico quali figli minori o anche figli adulti disoccupati o disabili e anziani con il minimo contributo pensionistico».

Lo studio è stato realizzato su circa 50 abitanti del quartiere e le interviste si sono incrociate con quelle di due testimoni “speciali”: il Parroco della Chiesa che ha lo stesso nome del Rione, Mons. Vincenzo Cirrone, e la dott.ssa Rita Scaringi, dirigente comunale del Dipartimento dei Servizi Sociali. Dalle due testimonianze emerge che esistono due forme diffuse di povertà: «quella ambientale – strutturale e architettonica - e quella culturale. Strade e marciapiedi zeppi di escrementi di animali domestici, cartacce che svolazzano per le vie, erbacce che crescono tra le strade e i marciapiedi, e ancora palazzi non curati, prospetti fatiscenti, mancanza di strutture adibite a servizi per la persona, di spazi in cui i ragazzi possano ritrovarsi, trascorrere il tempo libero e giocare».

Certamente la crisi economica, con il moltiplicarsi di nuove forme di povertà e vulnerabilità ha colto il nostro paese impreparato, con una mancanza di strategie stabili e durature. La provincia di Trapani, come il Sud, ha pagato pesantemente questa crisi. (gli ultimi dati dell’Istat, pubblicati nel luglio 2013, descrivono che dal 2007 al 2012, il numero dei poveri in Italia è raddoppiato, passando da 2,4 a 4,8 milioni mentre nel meridione il numero dei poveri è passato da1,8 a 2,3 milioni negli ultimi due anni).

Dall’analisi del quartiere viene fuori un’indicazione procedurale fatta dalla Bartholini e dalla sua collaboratrice: combattere le povertà in una prospettiva di Social Innovation. «Significa – spiegano - partire da idee nuove (prodotti, servizi e modelli) che vanno incontro ai bisogni sociali generando progresso, cambiamento, miglioramento della condizione sociale esistente attraverso nuove relazioni sociali e nuove collaborazioni che interessano gruppi diversi (amministrazione pubblica, organizzazioni della società civile, mercato, terzo settore e così via)».

E ancora la Bartholini afferma: «è un fenomeno che nasce dall’esperienza pratica della società civile, dei comuni cittadini e che è già presente in molte realtà comunali del nord d’Italia. Si tratta di fronteggiare bisogni e vulnerabilità sociali attingendo oltre che alle proprie risorse e potenzialità personali, anche a quelle relazionali, attraverso forme di collaborazione fra amici, familiari, parenti, vicinato. La cooperazione, l’utilizzo delle risorse green, lo scambio piuttosto che la logica del profitto sono le chiavi di una social innovation che può considerarsi oggi l’unico strumento maneggiabile dalle comunità di quartiere e in grado di fronteggiare la crisi. Se invece di far crescere erbacce, si coltivassero cavolfiori, pomodori e insalate e se poi si distribuissero o si vendessero dentro il quartiere a un prezzo politico, utilizzeremmo più utilmente gli spazi pubblici; se invece di lasciare per strada i ragazzini, si organizzassero più attività ludiche con l’aiuto operoso di disoccupati e anziani; e se si tinteggiassero i muri delle case in una cooperazione di quartiere, si avrebbe un maggiore benessere collettivo sulla base di un’innovazione sociale a costo zero».

SALVATORE AGUECI


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